Il film di Bellocchio sul ‘Caso Mortara’ riaccende l’interesse su un fatto tutt’altro che isolato della Chiesa nei confronti degli ebrei

Opinioni

di Ugo Volli
Il film “Rapito!” di Marco Bellocchio, presentato a Cannes e prossimamente in distribuzione, riapre una questione che non è mai stata davvero risolta, quella delle conversioni forzate degli ebrei al cristianesimo e in particolare dei bambini ebrei, sottratti alla famiglia, battezzati e rinchiusi per impedire loro di “ricadere” nella religione dei padri. L’episodio che Bellocchio ricostruisce è quello di Edgardo Mortara, nato nel 1851 da una famiglia ebraica di Bologna e prelevato dai gendarmi papalini il 23 giugno 1858, col pretesto che durante una sua malattia sarebbe stato battezzato da una domestica. Non è sicuro che ciò sia davvero accaduto o l’affermazione fosse una vendetta della domestica licenziata, ma il bambino fu tolto con la forza ai famigliari, portato a Roma per diretta volontà del Papa Pio IX e oggetto di pressioni tali da fargli prendere i voti e diventare un prete.

Le richieste disperate della famiglia, una protesta non solo italiana ma internazionale, l’appello alla magistratura, la liberazione di Roma furono inutili di fronte alla violenta determinazione di un papa che oltre all’opposizione alla modernità e all’unità d’Italia era mosso da un personale sentimento antisemita. Il caso fu molto famoso ai suoi tempi, fu fra i fattori determinanti per la nascita dell’Alliance israélite universelle, la prima organizzazione internazionale di solidarietà ebraica. Inevitabilmente in seguito il caso uscì dall’attenzione pubblica e fu gradualmente dimenticato, salvo che naturalmente dalla famiglia e dalla comunità ebraica.

Cent’anni dopo i fatti, nel 1960, fu una storica dell’ebraismo italiano, Gemma Volli, di cui mi onoro di essere pronipote, a riproporre la questione con una serie di articoli scientifici, ripubblicati di recente da Giuntina. E’ una ricostruzione storicamente conclusiva: l’esame delle carte del processo che fu intentato ai rapitori dopo l’annessione di Bologna al regno d’Italia, lo studio dei documenti della famiglia, delle testimonianze, e anche delle immagini fotografiche dei personaggi di questa triste vicenda, è stato definitivo: i suoi risultati non sono stati sostanzialmente smentiti e neppure modificati né dagli studi successivi di ottimo livello storico come quello di Kertzner (1997), Scalise (1996), da Silva (2008), Mortara (2015) e neppure naturalmente da un pamphlet giustificazionista come quello scritto da Messori nel 2005 in testa a uno strano memoriale in terza persona attribuito in maniera poco convincente allo stesso Edgardo Mortara. Di recente è uscito anche un romanzo sul tema: L’ultimo degli oblati di Pier Damiano Orich e Giovanni Perich. Era stato annunciato alcuni anni fa come imminente un film di Steven Spielberg, ma poi  il progetto è stato rinviato o annullato e si è fatto invece il film di Bellocchio.

Insomma intorno a questa vicenda è cresciuto di nuovo un grande interesse. E’ importante capire però che la ragione della sua importanza non è la sua eccezionalità. Il caso Mortara non è affatto unico, anzi, rappresenta la regola dei comportamenti ecclesiastici nei confronti degli ebrei, determinati dal diritto, anzi dal dovere di salvare loro l’anima col battesimo. Non si tratta solo della continua pressione per la conversione degli adulti, in qualche modo programmata da sempre con la politica, teorizzata fin da Agostino di Ippona ma poi condivisa anche dall’Islam, di tener vivi sì gli ebrei, ma in condizioni così miserabili che fossero indotti ad adottare la religione maggioritaria.
Per secoli gli ebrei furono obbligati a sentire prediche obbligatorie, a pena di gravi punizioni per loro e per la comunità. A Roma nel 1542, ad opera di Ignazio di Loyola fu fondato una “Casa dei catecumini”, poi diventata “collegio dei neofiti” dove venivano portati gli ebrei che per qualche ragione davano mostra di poter essere indotti al battesimo e fra essi naturalmente molti bambini sottratti alla famiglia, con l’obiettivo finale di farli diventare preti e convertire altri ebrei. Qui visse e fu formato Edgardo Mortara fra il 1858 e il 1870, quando fu fatto fuggire in Francia per evitare la giustizia italiana. Ma quelli che subiscono questa sorte sono molte migliaia. La documentazione è frammentaria, ma sappiamo per esempio che tra il 1542 e il 1563, nei soli primi ventuno anni di attività vi furono registrati 141 battesimi. Chi arrivava alla casa poteva indicare altre persone che secondo lui erano suscettibili di conversione, in particolare ovviamente i minori, e queste erano prese e rinchiuse con la forza.

Il caso Mortara non è neanche l’ultimo. Durante la Shoah vi furono numerosi casi di bambini ebrei affidati dai genitori a conoscenti nell’imminenza della loro cattura, che furono battezzati e non riconsegnati alla famiglia, su istruzioni precise del Vaticano, fino all’intervento dei tribunali. I casi più noti si verificarono in Francia, al convento di Notre-Dame-de-Sion a Grenoble dove furono trattenuti una trentina di bambini, in particolare i due fratelli Robert e Gerard Finaly: un caso che coinvolse nella resistenza alla restituzione due futuri papi, Angelo Roncalli allora nunzio a Parigi e Giovanni Montini che reggeva la segreteria di Stato. I bambini furono restituiti solo sotto la pressione di uno scandalo internazionale e dopo l’arresto della madre superiore del Convento, ordinato dai giudici francesi. La regola di diritto canonico ribadita allora e probabilmente ancora valida era la seguente: «Se i bambini sono stati affidati dai loro genitori e se i genitori ora li reclamano potranno essere restituiti, a condizione che i bambini stessi non abbiano ricevuto il battesimo».

Di fronte a questi fatti, si capisce come, nonostante il “dialogo ebraico-cattolico” molto sostenuto da alcuni, nonostante il cambiamento di atteggiamento generale e le scuse chieste agli ebrei in maniera più o meno chiara da diversi papi (ultimo papa Francesco nel 2013) intorno al Caso Mortara vi sia ancora molta resistenza cattolica a riconoscere il torto. Non è solo il caso di un pubblicista controverso come Vittorio Messori, che sul caso ha scritto un libro apologetico, pubblicandovi uno strano preteso memoriale di Edgardo Mortara, di incerta origine e discussa traduzione. Sul film di Bellocchio è apparsa sull’Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, un violento attacco,  siglato dalla “storica firma” del teologo Gianni Gennari, che lo accusa di essere una rappresentazione “falsa e offensiva di Edgardo Pio Maria Mortara” e che addirittura lo qualifica come secondo rapimento: “Non pare giusto che dopo morte sia ancora trattato come ostaggio, rapito alla sua stessa vita reale.”

Insomma, il rapimento del piccolo ebreo di Bologna ha ancora molto da insegnarci, perché è una cartina di tornasole dei veri sentimenti di accettazione degli ebrei da parte della Chiesa.