«Non sono io a odiarli, sono loro a esistere». Alle origini del razzismo anti-ebraico e del suo attuale travestimento: l’antisionismo

Opinioni

di Claudio Vercelli

Storia e controstorie

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L’antisemita non argomenta mai riferendosi alle singole persone, quelle in carne ed ossa. Se lo facesse, riscontrerebbe l’inconsistenza delle sue affermazioni. Che non sia mai, pertanto. Se altrimenti fosse, l’argine sul quale si posiziona saldamente, cederebbe in un colpo solo. Travolgendolo indecorosamente. Il razzismo antiebraico ha quindi il bisogno “esistenziale” di richiamarsi alle grandi categorie, quelle per cui non solo ci si risparmia il riscontro dei fatti ma, ciò facendo, si va ben oltre essi, costruendosi dei fatti a propria immagine e somiglianza. Quasi fossero oggetto di conforto. Perché qualsiasi pregiudizio, per continuare ad esistere, necessita di alimentarsi di immagini, idealizzazioni negative, simulacri di persone e cose che ne confortino la sua natura di “falsa coscienza”. L’«ebreo» del quale parla l’antisemita non esiste nei fatti ma è senz’altro una pervicace, indistruttibile proiezione capovolta dell’identità antisemitica. Nessuna psicologia spicciola, per intenderci. E neanche sottigliezze troppo recondite, per parte nostra.

 

Un movente fondamentale, nello stato dei risentimenti che attraversano l’antisemita, è l’invidia. Soprattutto, il risentimento per il fatto che coloro che egli considera e chiama spregiativamente «ebrei» siano sopravvissuti alle prove dei tempi. È come se dicesse: “non sono io a odiarli, sono loro ad esistere”. L’antisemitismo rivendica per se stesso una condizione di totale innocenza: non si tratterebbe di razzismo, per carità, ma legittima avversione per qualcosa o qualcuno (cose e persone si fondono, in questo pensiero lucidamente delirante) che non ha ragione morale, civile, storica di esistere. E che il fatto stesso di persistere, rappresenta un’offesa irreparabile, da sanare. Una minaccia contro il resto dell’umanità.

I toni assunti dall’antisemitismo in età contemporanea, non a caso, sempre più spesso sono stati apocalittico-redentivi. Si tratta di raddrizzare il mondo in quanto legno storto. Se tutto ciò è storicamente valso per l’antisemitismo storico, quello con il quale si è dovuto fare i conti fino agli anni a noi più prossimi, oggi ci sono preoccupanti analogie con il discorso antisionista. Si tratta, politicamente e culturalmente parlando, di un fenomeno trasversale, che raccoglie adepti un po’ ovunque ma soprattutto tra chi è alla ricerca di capri espiatori, di semplificazioni dinanzi alla complessità dell’esistente e di fronte alla debolezza e alla residualità del suo insediamento politico.

L’antisionismo, laddove tematizza Israele come “ebreo collettivo”, responsabile delle peggiori nequizie storiche e morali, diventa così la nuova forma, la frontiera più recente, e anche quella più accettabile e premiante, di un vecchio pregiudizio. Anche perché l’antisemitismo ha incredibili capacità mimetiche. Essendo una sorta di tradizione storica in costante mutamento e in perenne adattamento ma destinata a rigenerarsi da sé.

Ci sono tre nuovi orizzonti per il risentimento antiebraico: il web, in quanto habitat di relazioni virtuali; il radicalismo islamista, che spaventa molti ma seduce tanti altri, non solo musulmani; il complottismo, che sostituisce alla storia una visione invece distorta, semplificante e quindi avvincente per non pochi, della realtà quotidiana, altrimenti per questi stessi incomprensibile. Da questi elementi, e dalla loro possibile saldatura con i cambiamenti in corso nelle nostre società, dove le stesse relazioni tra minoranze e maggioranza stanno conoscendo rilevanti trasformazioni, dipende il destino non solo delle prime ma anche della seconda. E con esse, di quella cosa che continuiamo a chiamare democrazia.