Un tank per raccontare l’epopea dei pionieri

Libri

di Roberta Ascarelli

Capolavori: Il carro armato di Assaf Inbari. Un caso letterario. Un romanzo già entrato nel mito. Che narra lo scontro con le truppe siriane a Degania visto da cinque eroi

 

Era il 20 maggio 1948. Sei giorni prima David Ben-Gurion aveva proclamato a Tel Aviv la nascita dello Stato d’Israele ed era scoppiata una guerra impari e pericolosa. Ma a Nord, nella valle di Kinneret, i carri armati siriani che avanzavano indisturbati vengono fermati alle porte di Degania, un piccolo insediamento agricolo ricco di storia e di ideologia, da alcuni soldati e da un centinaio di coloni equipaggiati con qualche molotov, poche granate e la volontà di resistere ad ogni costo.
Un carro armato viene colpito, i nemici sorpresi e intimoriti si ritirano precipitosamente lasciando alle loro spalle una scocca carbonizzata e una fitta tessitura di narrazioni.

Leggende, ricordi, personaggi e documenti di quest’evento creano la struttura dell’ultimo romanzo di Assaf Inbari Ha tank del 2018, vincitore nel 2020 del premio Agnon per “aver combinato il successo letterario con una prospettiva chiara sui valori centrali dell’ethos sionista e sui temi della società israeliana”, e ora pubblicato da Giuntina per la ottima traduzione di Alessandra Shomroni (Il carro armato, 274 pp., 20 euro).

Lo spirito del racconto è lo stesso che domina la avvincente saga del suo primo romanzo, Verso casa (Giuntina, 2020) che si svolge sullo sfondo di un altro kibbutz, quello di Beth Afikim: “circondato da una recinzione di filo spinato […] furono scavati dei fossati di comunicazione; si fecero scorte di cibo e benzina e un ponte di botti fu costruito sul Giordano come via di fuga. ‘Se avremo uno stato, quanto tempo gli dai?’ – chiese Clara Galili a Zvi Brenner. ‘Se ci sarà. Che duri due settimane – ma almeno ci sarà’”.
Simile anche la struttura del testo che si muove ambiziosa sul confine tra individualità e coralità, sacrificando a volte alla visione di insieme le sfaccettature dei personaggi principali ma anche della piccola folla di figure ‘minori’, descritte spesso con una distanza appena mitigata dalla cifra di una affettuosa ironia.

La struttura è però più ambiziosa e meno ‘collettiva’ di Verso casa anche se non viene meno la fitta tessitura delle voci e la infinita carrellata di personaggi legati, in questo caso, a quel relitto di carro armato e al kibbutz che lo contiene: un oggetto fortemente simbolico per una letteratura che deve, secondo l’autore, plasmare nuovi miti e generare nuovi racconti. “Ma la narrazione stessa, – scriveva Inbari in un saggio teorico sulla letteratura israeliana nel 2010 – l’insieme storico in cui queste scene sono intarsiate, non è ‘verità storica’, così come non è falsità. È letteratura e il suo scopo, come quello di ogni opera d’arte, non è informativo ma spirituale, legato ai valori, all’estetica e alle emozioni”.

Tra realtà e finzione, romanzo storico e progetto identitario Inbari descrive le fragili esistenze dei cinque uomini che ritengono di aver avuto un ruolo decisivo in quello scontro – Baruch Bar Lev, Shlomo Anschel, David Zarchia, Shalom Hochbaum e Itzhak Eshet -. Sono persone comuni, deluse dal declino degli antichi ideali e dalla loro opaca quotidianità che trovano un senso e una cittadinanza nel ricordo di quell’imprevista prodezza. Ognuno conserva ricordi diversi dello stesso evento storico; ognuno è convinto di essere colui che ha fermato il carro armato, cambiando così il corso della guerra.

Alla vicenda della loro vita, ben delimitata in singoli capitoli a sottolineare diversità e distanza, ma anche a sperimentare il legame tra i frammenti e una auspicata visione di insieme, fa da contrappunto la recente storia di Israele che tutti unisce, e il ripetersi degli interrogativi sul significato e sulle prospettive di quella storia: “Se sì, chi è l’eroe? – scrive Inbari – È la persona che ha fermato il carro armato, chiunque essa sia, o forse c’è più di un eroe, o più di un modo di intendere l’eroismo?”.

Nei resoconti ufficiali (e alcuni malignano, per motivi politici), l’eroe di Degania è solo Shalom Hochbaum un colono sopravvissuto alla Shoah che era giunto al kibbutz Degania per iniziare una nuova vita con un nome ebraicizzato, un lavoro umilissimo e poche speranze. Ma quando il kibbutz decide di impossessarsi di quella vittoria cancellando gli “estranei”, Shalom è invitato a ripetere più e più volte ai tanti visitatori la sua narrazione: con coraggio, aveva lanciato una molotov che era rotolata sotto il carro armato e lo aveva distrutto, mentre i nemici, terrorizzati da questa inattesa resistenza, si erano dati alla fuga.
Fino alla sua morte, avvenuta nel 1976, Hochbaum ripete la sua versione. Ma anche gli altri protagonisti del romanzo (e dello scontro) pensano che, nella battaglia di quel giorno fatale, siano stati loro a distruggere il carro armato.

David Zarchia, militare prossimo alla pensione, racconta le sue gesta nella Guerra di indipendenza solo al figlio Shabi, un giovane gracile, insicuro e facilmente impressionabile, per dargli un po’ di coraggio. Ytzhak Eshet “era rimasto fermo al momento del passato […] quando aveva fermato il carro armato siriano a Degania Alef”, e, nella sua oscura vita di impiegato, il colpo sferrato con un Piat contro il mezzo dei siriani rappresenta una potente consolazione. Anche Shlomo Anshel, meticoloso autista di autobus e aspirante cecchino, era convinto di aver centrato il bersaglio con la sua arma anticarro. Infine Baruch Bar Lev il più interessante tra gli aspiranti eroi, soldato, attaché in Uganda, uno dei protagonisti della vicenda di Entebbe, racconta in due modi diversi la sua storia: la narra – afferma – sia come ‘epopea israeliana’ con un protagonista “che già a dieci anni cavalcava armato per difendere una fattoria isolata” ma anche come un’‘epopea ebraica’, quella di “un astuto lituano che aveva teso un tranello a un siriano” spalancando ai carri armati le porte del kibbutz e preparando così l’ imboscata. In mancanza di una tribuna e di un pubblico, le loro versioni rimangono a lungo sconosciute. Ma, improvvisamente, tra interviste, convegni, inchieste giornalistiche che indagano non tanto la storia del carro armato, quanto le storie che il carro armato ha lasciato dietro di sé, la verità si fa lentamente strada coinvolgendo ancora altri personaggi e delineando così una vicenda collettiva con molti partecipanti e un comune successo.

Anche su questa tardiva ricerca che getta nuova luce sui fatti del 20 maggio a Degania, Inbari si sofferma nel romanzo con il piacere del giallista e con una dolente immedesimazione nelle fragili esistenze di uomini che hanno trovato un senso e una cittadinanza in quel successo imprevisto e, per lunghi anni, segreto.
Quello che rimane è un riuscito esperimento narrativo e, soprattutto, un inno alla speranza: “Questo Stato non è sorto dai miracoli, -scrive – ed è importante per noi incidere nei nostri cuori che non è con un miracolo che ne assicureremo l’esistenza negli anni a venire. […] La nostra generazione di pionieri si è ribellata contro il tradizionale fatalismo ebraico, è tornata alla storia e ha mutato la sua direzione”.