Scardinatori di certezze. Ecco perché contro gli ebrei si accende l’antisemitismo degli invidiosi

Libri

di Ugo Volli

[Scintille: letture e riletture]

Sull’antisemitismo, sulla sua storia e sulle sue radici culturali, psicologiche e sociali si è scritto tanto, dopo la Shoah, soprattutto da parte ebraica. Conosciamo da molti studi le prime espressioni tramandate dell’odio per gli ebrei nell’Egitto ellenistico, dove si forma una controstoria dell’Esodo, che associa gli ebrei ai lebbrosi cacciati dal regno; sappiamo leggere la ripugnanza romana, ad esempio di Tacito, per il monoteismo e il rifiuto di assimilarsi degli ebrei. Soprattutto siamo in grado di seguire nei dettagli la lunga storia dell’“antigiudaismo cristiano”: dai primi semi di contrapposizione nei Vangeli e nell’opera di Paolo di Tarso, fino alle micidiali omelie antiebraiche di Giovanni detto “Crisostomo” (bocca d’oro) proprio per la sua violenza oratoria, alle analoghe invettive di altri padri della Chiesa fra cui Ambrogio e Agostino, giù giù per le discriminazioni medievali, le prime stragi di massa al tempo delle crociate, il diffondersi della “calunnia del sangue” a partire dall’Inghilterra del XII secolo, le cacciate, i ghetti, gli “auto da fè” fino ai pogrom orientali.
E poi la progressiva inimicizia di Maometto per gli ebrei, culminata in stragi di massa durante la sua vita, poi spesso ripetute nella storia dell’Islam, e in una legislazione discriminatoria che è rimasta nei fatti e soprattutto nella mentalità islamica fino a oggi. Per arrivare infine, con la modernità, al disprezzo per gli ebrei nell’illuminismo, ad esempio in Voltaire e Kant, ma anche all’odio sviluppato nella cultura romantica da Hegel e Fichte a Wagner, con le appendici socialiste a partire da Marx, fino all’invenzione della parola “antisemitismo” alla fine dell’Ottocento, al contemporaneo affermarsi del paradigma razzista, con l’esito del genocidio nazista. Sappiamo bene oggi che la bestia dell’antisemitismo non è morta, anzi oggi è diffusa, spesso sotto le vesti dell’antisionismo: a destra negli eredi del nazismo, a sinistra nei continuatori più o meno consapevoli dell’inimicizia per Israele della vecchia Unione Sovietica, e soprattutto negli islamisti e in chi li appoggia.
In questo quadro così chiaro e dettagliato, almeno per chi si preoccupa di questo tema, mancava però, almeno nella pubblicistica occidentale, il punto di vista della tradizione ebraica, l’analisi della spiegazione che ne danno le Scritture e i maestri del Talmud. È vero che vi sono alcuni passi capitali e molto noti in cui le Scritture accennano a questa dinamica. Il primo è all’inizio dell’Esodo, quando il Faraone “che non ricordava Giuseppe” arriva a pensare che gli ebrei sono troppi, che costituiscono dunque un pericolo in caso di guerra, e ne decide la decimazione con il lavoro servile e poi l’uccisione dei neonati; il secondo è nel libro di Ester, quando Haman dice al re persiano che vi è un popolo diffuso nei suoi domini il quale si tiene separato dagli altri e segue le proprie leggi e dunque non quelle dello Stato, per cui va eliminato.
È proprio da questo episodio che parte un interessantissimo libretto di Delphine Horvilleur (Riflessioni sulla questione antisemita, Einaudi 2020, pp. 120, € 14). Haman, come è noto, viene presentato come discendente di Amalec, re eponimo di un popolo beduino che all’uscita dall’Egitto attacca il popolo ebraico per distruggerlo nel momento della massima debolezza, ma viene combattuto e sconfitto anche con l’intercessione della preghiera di Mosè. È un episodio anch’esso esemplare dell’antisemitismo, rispetto a cui la Torah impone al popolo ebraico l’obbligo di un ossimoro, se non di una contraddizione: bisogna ricordarsi di dimenticare Amalec, scrivere nel libro che il suo ricordo sia cancellato. Amalec dev’essere comunque eliminato completamente, viene ribadito anche nel libro di Samuele; e Saul perderà il suo trono proprio per non averlo fatto, dopo averlo sconfitto, conservando parte del bottino e salvando la vita del re. È interessante notare che nel libro di Ester, il regista della resistenza ebraica viene descritto come appartenente alla stessa tribù di Saul, quella di Beniamino: la sua è una sorta di rivincita.
Horvilleur si chiede chi sia Amalec nelle fonti rabbiniche. La sua genealogia è chiara, sta nella Torah: è un nipote di Esaù, figlio di suo figlio Elifaz e della sua concubina Timna; sennonché, nota l’autrice, Timna in un altro passo è figlia di Elifaz e sorella di Amalec, il che suggerisce che ricopra entrambi i ruoli e che dunque Amalec nasca da una relazione incestuosa fra il padre e la sorella. Nel trattato talmudico di Sanhedrin però Horvilleur mette in luce un’altra storia. Timna sarebbe una principessa della regione montagnosa di Seir, vicino a Hebron, originariamente possesso ittita ma poi passato in mano a Esaù. Timna avrebbe chiesto di entrare nel popolo ebraico, ma la conversione le sarebbe stata negata e quindi avrebbe scelto Esaù, sicché l’antisemitismo di Amalec deriverebbe dalla vendetta per il rifiuto. Su questa base l’autrice mette in campo l’etimologia (per cui Timna vorrebbe dire “la rifiutata” e Amalec “il privo di popolo”) e soprattutto la psicoanalisi, per mostrare che all’origine dell’antisemitismo, nell’intuizione talmudica, vi sarebbe “una storia di gelosia, di invidia e di rifiuto, la volontà frustrata di far parte di una famiglia che non ha alcuna propensione ad allargarsi”.
L’indagine di qui si allarga a monte, verso le ragioni di Esaù nel conflitto con Giacobbe, anch’esso “una storia di gelosia”, e poi soprattutto a valle, usando narrazioni contenute nella letteratura rabbinica e incentrandosi sui rapporti fra Israele e impero romano, che spesso vi viene designato con denominazioni che rimandano a Esaù. Vi sono storie di odio immotivato (l’imperatore Adriano) e di amicizia altrettanto strana (l’imperatore Antonino che si mette “al servizio” di Jehuda ha Nassì in un passo del trattato talmudico di Avodà Zarà), fino alla storia di un consigliere dell’impero (Qetyah Bar Shalom) che consiglia di eliminare tutto ciò che impedisce la sua compattezza e dunque giustifica l’eliminazione preventiva degli ebrei.
Da questa idea degli ebrei come nemici dell’integrità si arriva poi alla frequente identificazione degli ebrei con l’elemento femminile, per esempio nelle letture di Freud, Derrida, Sartre e nell’esempio di odio di sé costituito da Otto Weininger, il giovane filosofo antisemita e antifemminile di stirpe ebraica che si uccise all’inizio del Novecento per eliminare dal mondo la sua stessa odiata origine: un gesto che nella sua paradossale contraddizione sembra speculare all’ossimoro della prescrizione su Amalec.
Questo libro sottile (di dimensioni e di ingegno), assai piacevole da leggere, per nulla appesantito dalla sua cultura e benissimo tradotto da Elena Loewnthal, traccia un percorso affascinante e perturbante, che non ho modo di riassumere ulteriormente qui, ma che consiglio molto di seguire. La tesi di Horvilleur è che l’ebraismo è odiato perché impedisce la chiusura tautologica dei popoli, delle culture, delle organizzazioni politiche, perché insomma l’ebraismo si pone come l’alterità rispetto a tutti, anche a se stesso, come eterna incompletezza e sovversione.
Non è una tesi nuova e neppure del tutto convincente, perché l’aspirazione ebraica nella storia come nelle scritture è quella di vivere una vita buona e giusta secondo principi chiari ed espliciti: proprio in nome della propria autonomia etica gli ebrei hanno tante volte rifiutato di sottomettersi ai costumi e al giudizio degli altri popoli, mantenendo la propria identità, che è il vero oggetto dell’antisemitismo.
Ma è interessantissimo seguire questa traccia femminista, psicoanalitica e filosofica, e insieme attenta ai segni enigmatici della nostra tradizione, che propone un’altra genealogia dell’antisemitismo.