#rileggiamoli: “L’ultimo Natale di guerra” di Primo Levi

Libri

di Stefania Ilaria Milani

primo leviMILANO – Come si dice? Le feste portano buoni consigli? Così sembrerebbe, se non altro leggendo un post di TabletMag pubblicato il 26 dicembre scorso. In linea con un ben più esteso articolo apparso sulle pagine della rivista letteraria bisettimanale The New York Review of Books, il magazine online di politica-vita-arte ebraiche ha voluto suggerire ai propri affezionati frequentatori di recuperare un’opera misconosciuta di un autore/Classico della letteratura: L’ultimo Natale di guerra di Primo Levi.

Brevemente: lo scrittore e chimico torinese Primo Levi fu imprigionato in Buna-Monowitz, uno dei tre sottocampi di Auschwitz (anche noto come Auschwitz III), per 11 mesi prima che il campo di concentramento venisse liberato il 27 gennaio 1945 dall’Armata Rossa. Il 30 gennaio 1986 (poco più di un anno prima del suo suicidio), Levi confidò alcuni ricordi del Natale del ‘44 ai lettori del New York Review of Books: i ricordi di quando i deportati a Monowitz, molti dei quali vantavano mirabili competenze tecniche e, per questo, avevano lavorato nelle industrie esterne alla zona grigia, si resero conto che l’esercito russo stava spingendo le proprie forze verso i tedeschi. “Di notte, quando tutti i rumori del campo erano sopiti – scrisse – sentimmo il tuono delle artiglierie avanzare.” Pur intuendo che la guerra poteva essere agli sgoccioli, Levi e i suoi compagni di prigionia non possedevano ancora grandi certezze sul loro destino. Allora, mentre il mese di dicembre non faceva che passare e la neve aveva invaso ogni cosa, compresa la fabbrica di gomma sintetica della IG Farben dove il giovane chimico era stato impiegato, tutto cambiava e al contempo rimaneva lo stesso di sempre. Almeno fino a Natale:

«Fu un Natale memorabile per il mondo in guerra; memorabile anche per me, perché fu segnato da un miracolo. Ad Auschwitz, le varie categorie di prigionieri (politici, criminali comuni, asociali, omosessuali, ecc.) potevano ricevere pacchi dono da casa, ma gli ebrei no. Del resto, da chi avrebbero potuto riceverne? Dalle loro famiglie sterminate o rinchiuse nei ghetti superstiti? Dai pochissimi sfuggiti alle razzie, nascosti nelle cantine, nei solai, atterriti e senza quattrini? E chi conosceva il loro indirizzo? A tutti gli effetti, noi eravamo morti al mondo. (…) Non eravamo più soli: un legame col mondo di fuori era stabilito. E c’erano cose deliziose da mangiare per giorni e giorni. Ma c’erano anche problemi pratici gravi, da risolvere all’istante: ci trovavamo nella situazione di un passante a cui venga donato in piena strada un lingotto d’oro. Dove metterlo? Come conservarlo? Come sottrarlo alla cupidigia degli altri? Come investirlo? (…) Il resto non era del tutto sprecato, qualche altro affamato stava festeggiando il Natale a spese nostre, magari benedicendoci. E comunque, di una cosa si poteva essere sicuri: era quello l’ultimo Natale di guerra e di prigionia.»

(Estratto da L’ultimo Natale di guerra, Primo Levi, Einaudi, 2002)

Un libro da riprendere in mano
L’ultimo Natale di guerra è una raccolta di 26 storie “disperse” scritte da Primo Levi tra il 1977 e il 1987, quindi durante l’ultimo decennio della sua esistenza, per diversi giornali-riviste (vedi i racconti dedicati a La Stampa) ed edite per la prima volta postume, a cura di Marco Belpoliti, nel 2000 da Einaudi, collana “Supercoralli”. Qui ai canguri, alle formiche, alle giraffe, ai gabbiani, ai marziani, a dolci fanciulle alate s’intessono anche qualche preziosa considerazione, spesso elaborata ironicamente, sulla nostra società e memorie sia della vita del lager, vissuta con quel 174517 marchiato sull’avambraccio sinistro, sia della vita di bimbo nella mai abbandonata città di Torino. Un doppio registro narrativo, perché, oltre ai testi più autobiografici, vi scorgiamo due direzioni di scrittura del tutto innovative: quella fantastico-kafkiana e quella umoristico-naturalistica.

Se intendete approfondire l’orizzonte leviano, sarà necessario che mettiate (o rimettiate) sul comodino della vostra camera da letto questo piccolo libricino che, sì, sta all’ombra dell’incommensurabile grandezza dei Se questo è un uomoLa treguaI sommersi e i salvati, ma è di certo da considerarsi capitolo altrettanto fondamentale nella “Letteratura della Memoria”. La memoria di quanti sono morti di lavoro e di sevizie, dei superstiti e di chi rincasato, tentando di sopravvivere al dolore, ci ha donato le parole più belle per non dimenticare.