Nava Semel: amore e guerra, da Tel Aviv al Piemonte

Libri

di Ruth Keret

Nava Semel

È un vero piacere incontrare la scrittrice Nava Semel, a Milano per il convegno su Letteratura ebraica al femminile, all’Università Statale. Vivace, energica e giovanile, riesce subito a instaurare un “feeling” con i suoi interlocutori, esattamente come fece nella visita alla nostra Scuola, sei anni fa, quando incontrò i ragazzi delle elementari e del liceo. Nava è nata a Tel Aviv, da genitori sopravvissuti alla Shoah. Scrive per adulti e per ragazzi ed è tra le più talentuose e importanti figure della letteratura israeliana contemporanea e nella realtà culturale del Paese. Alcuni dei suoi libri, pubblicati in italiano, sono: Il Cappello di Vetro, Come si avvia un amore e E il topo rise (Atmosphere Libri)

Hai un rapporto speciale con l’Italia. Ne parli nel tuo nuovo romanzo?

Mi ci sono voluti sei anni per scrivere questo libro, Testa storta, che è in fase di traduzione in italiano; è ambientato in Piemonte nel ‘43, sotto l’occupazione nazista, e racconta la storia di Maddalena, una giovane cantante d’Opera cattolica, di sua madre e suo figlio Tommaso. Maddalena cerca di salvare la vita di Salomone Levi, l’uomo che ama, un musicista ebreo di Torino, nascondendolo nel suo villaggio in Piemonte. Questa storia ci pone due importanti quesiti: cosa siamo disposti a fare per salvare una vita umana, e qual è il prezzo che hanno pagato i salvatori. Maddalena ama Salomone ed è disposta a sacrificare tutto per salvarlo, ma non è sola. Il parroco, il medico e il campanaro del villaggio sono figure che suscitano interesse perché sono altruisti e veri “religiosi”. Aiutano Maddalena a nascondere Salomone, solo perché ritengono che sia giusto comportarsi così. Ho dedicato molte delle mie opere, tra le quali il recente libro E il topo rise, ai sopravvissuti, ai loro ricordi, a quello che non volevano ricordare e a quello che hanno trasmesso alle generazioni future. In questo ultimo, mi dedico ai salvatori.

Come mai proprio il Piemonte?

Perché mi ha conquistata, quando ci sono stata sette anni fa. Durante quella visita sono arrivata per caso in un piccolo villaggio con case di campagna e una bellissima vista delle Alpi. Passeggiando per i sentieri, ho notato una mansarda con una piccola finestra, dove ho immaginato un uomo nascosto che si affacciava e ho avuto una strana sensazione. Ho chiesto alla mia guida, Maria Teresa Milano, cosa fosse successo in quel villaggio e lei mi ha risposto che lì avevano nascosto degli ebrei durante la guerra. E allora ho iniziato a scrivere il mio romanzo.

Per poter scrivere il libro Testa storta ho fatto una ricerca storica approfondita sugli ebrei italiani, in particolare nel Piemonte di quel periodo. Ho ripercorso gli avvenimenti storici studiando in dettaglio la vita nei villaggi in quegli anni, ho studiato come si vestivano, come preparavano la polenta e il vino, quale musica cantavano… Ho ripreso a leggere l’italiano, che avevo studiato all’università durante i miei studi di Storia dell’Arte, per poi poter costruire dentro di me i miei personaggi.

La famiglia israeliana è spesso al centro delle tue opere. In Il cappello di vetro parli del dialogo tra le generazioni in Israele, influenzato dall’esperienza dei genitori sopravvissuti. Perché?

I figli, ovvero la “seconda generazione”, devono aprire la “scatola nera” della memoria dei genitori, per poter crescere e costruire la loro vita. In E il topo rise, un’anziana signora, nell’ultimo giorno dell’anno 1999 a Tel Aviv, racconta alla nipote, che sta preparando una ricerca per la scuola, la sua esperienza da bambina, durante la guerra, collegando in questo modo il passato con il presente e il futuro.

In Un matrimonio australiano racconti invece del tuo lungo viaggio per andare a trovare tuo figlio, che dopo il servizio militare, come fanno tanti ragazzi, ha vissuto un periodo in Australia.

Sì. Mi interrogo sul rapporto, a volte difficile, che hanno gli israeliani, anche quelli che vivono lontani, con la loro patria. Lo Stato di Israele rappresenta sempre per gli israeliani una sorta di “famiglia allargata”.

Tu ami molto la tua città, Tel Aviv. Qual è il segreto di questa città che attira i giovani da tutto il mondo, e anche tanti ragazzi della nostra Comunità?

Tel Aviv è una città in continuo fermento. È il centro nevralgico del Paese e perciò è così frizzante. La protesta sociale dello scorso anno è iniziata da Rehov Rotschild a Tel Aviv. È una città liberale, aperta, ed è il centro della cultura israeliana per la musica, il teatro e il cinema. Con tutte quelle biciclette in circolazione, dà l’impressione di essere sempre in vorticoso movimento!