Menachem Begin e il J’Accuse contro il regime totalitario sovietico

Libri

di Esterina Dana
Il libro fu pubblicato nel 1953, tre anni prima delle rivelazioni di Krusciov al XX Congresso del PCUS sui crimini di Stalin. È la testimonianza dell’ “inquisizione ideologica” cui venne sottoposto, nonché della realtà dei gulag sovietici, che materializza le distopie immaginate da George Orwell in 1984. Ora esce con Giuntina, con l’Introduzione del figlio Ze’ev Begin e l’Introduzione all’edizione italiana di Massimo Longo Adorno.

 

“Questi documenti dovranno essere per sempre preservati”. È la dicitura che compare sul verbale degli interrogatori, ritrovato negli archivi del KGB cinquant’anni dopo la reclusione di Menachem Begin, il futuro premier israeliano, nella prigione di Lukishki a Vilnius. Cinquanta ore di interrogatori, ritrovati nel 1992, quando fu resa pubblica la documentazione segreta dell’NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni), l’agenzia di sicurezza e polizia segreta dell’Unione Sovietica. Confermano le memorie della sua prigionia e della sua detenzione in un Gulag staliniano e ci vengono ora restituite in italiano dalla casa editrice Giuntina con l’Introduzione del figlio Ze’ev Begin e l’Introduzione all’edizione italiana di Massimo Longo Adorno.

Il libro (Menachem Begin, Prigioniero in Russia) fu pubblicato nel 1953, tre anni prima delle rivelazioni di Krusciov al XX Congresso del PCUS sui crimini di Stalin e nove prima dell’uscita di Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn. È la testimonianza dell’ “inquisizione ideologica” cui venne sottoposto, nonché della realtà dei gulag sovietici, che materializza le distopie immaginate da George Orwell in 1984.

Menachem Wolfovitch Begin viene arrestato a Vilnius il 20 settembre 1940 dalla NKVD con l’accusa di “spionaggio e sabotaggio” e condannato senza processo per le sue attività sioniste. Il foglio di incriminazione lo dichiara “colpevole di essere membro del Partito sionista revisionista” […] “un elemento pericoloso per la società e ordina che venga internato in un campo correttivo di lavoro per otto anni”. Ha  27 anni e già una carriera di attivista politico alle spalle. Fin da giovane, in Russia, aveva militato nel Betar, il movimento sionista revisionista fondato da Zeev Jabotinskij, etichettato come organizzazione “borghese e controrivoluzionaria” e  per questo illegale. In Polonia ne diviene il leader, ma quando nel 1939 i tedeschi  la invadono, ne trasferisce il Comitato centrale nella capitale lituana e organizza l’emigrazione degli ebrei nella Palestina, clandestina per la limitazione degli ingressi imposta dal governo britannico nel Libro Bianco. Nel 1942, dopo due anni di detenzione nel gulag, viene liberato grazie all’attacco nazista all’URSS e si unisce all’esercito polacco prima di raggiungere la Palestina, dove aderisce all’Irgun Zwaì Leumì, (Organizzazione Militare Nazionale).

Begin descrive gli interrogatori come un “terribile vicolo cieco di accuse”, in cui l’inquisitore insisteva per estorcere al prigioniero una confessione di crimini mai commessi. Non viene usata la tortura fisica, ma quella mentale della privazione del sonno; “La lascerò solo. Eccole carta, matita e penna. Scriva ogni cosa in merito alla sua vita e alle sue attività, ma è meglio che scriva la verità”, lo esorta l’inquisitore. “Piegati dal sonno… nella testa del prigioniero comincia a formarsi uno strato di nebbia” e, per uscire da (un) “terribile vicolo cieco di accuse, finisce con il confessare reati di minore entità che non ha comunque commesso”.

Begin coglie subito la sostanza del totalitarismo sovietico e l’equivalenza con quello tedesco. “Gli ufficiali della Nkvd sono meno crudeli e più umani di quelli delle SS? Non si può stabilire”. Entrambi “hanno tolto dal loro vocabolario la parola pietà”.

Gli estenuanti interrogatori che il colonnello Kianchenko, inflessibile emblema del socialismo reale, definisce “testimonianze”, si concentrano sul sionismo visto dal regime sovietico come una “pedina nelle mani dell’imperialismo britannico”, “una deviazione nazionalista tra gli ebrei”. Begin rifiuta di considerarlo una colpa e difende il suo operato come un servizio al popolo ebraico: “Il sionismo esisteva prima del comunismo, del socialismo […] è probabilmente il più serio movimento di liberazione nazionale che il mondo abbia mai conosciuto” e aggiunge: “ ai vostri occhi questa è un’accusa seria, ma ai miei occhi non costituisce assolutamente un’accusa”, ribadendo: “sono consapevole di aver portato avanti il mio dovere verso il mio popolo”.

È pronto a firmare il verbale dell’interrogatorio, ma – dice – “non posso mettere la mia firma in calce a una dichiarazione che recita ‘sono colpevole di essere stato il capo del Betar in Polonia” e dopo una notte di confronto, l’inquisitore accetta di modificare la frase in: “Io ammetto di essere stato il presidente del Betar in Polonia”.

Durante la detenzione, Begin incontra compagni di prigionia che lo aiutano a sopportare l’orrore quotidiano, la deportazione, la vita ai limiti della resistenza, le temperature glaciali, i maltrattamenti, i lavori forzati.

Dopo la liberazione, in Palestina diventa una figura centrale nella politica israeliana. Tra i fondatori del Likud nel 1973, è primo ministro d’Israele nel 1977 e l’anno successivo firma gli accordi di Camp David con Anwar al-Sadat, ricevendo il Nobel per la Pace. Nel 1983 si ritira dalla vita politica. Muore nel 1992.

Prigioniero in Russia è un duro J’accuse contro il regime totalitario sovietico e una testimonianza chiave per comprendere l’identità di Israele e il valore del sionismo per la sopravvivenza del popolo ebraico.

 

Menachem Begin, Prigioniero in Russia, a cura di Massimo Longo Adorno, introduzione di  Ze’ev Begin, traduzione di  Massimo Longo Adorno, Giuntina Pagine: 424,  2025,  Giuntina,  24 euro