L’Unione Sovietica e la Shoah

Libri

Antonella Salomoni è una storica che ha già pubblicato libri ed articoli sull’ebraismo nell’Unione Sovietica (da segnalare il suo Nazionalità ebraica, cittadinanza sovietica uscito alcuni anni fa presso la Patron editore di Bologna) ed è quindi una buona conoscitrice dell’argomento, come si può evincere anche dal corposo apparato di note e di riferimenti bibliografici che accompagna il volume.
La sua è quindi una ricerca storica approfondita e documentata, anche alla luce di quanto è stato reso fruibile agli studiosi negli archivi ex-sovietici dopo la dissoluzione dell’URSS.
La tesi di fondo dell’autrice è che “se si adotta un punto di vista interno alla storia dell’Unione Sovietica, che è quello accolto in questo lavoro, l’impressione complessiva che si ricava dall’analisi della letteratura pubblicata nel paese sino alla fine degli anni Ottanta è dunque che la Shoah non vi sia mai stata pensata e problematizzata come un evento centrale del XX secolo”.

Certo non si è mai negato lo sterminio di sei milioni di ebrei europei, di cui quasi la metà di cittadinanza sovietica (antica o recente in seguito al patto Ribentropp-Molotov) ma il tentato genocidio del popolo ebraico non è mai stato riconosciuto come tale. Lo si è sempre ricompresso all’interno della categoria della “Grande guerra patriottica” cui diedero il proprio contributo tutte le nazionalità dell’URRS (senza menzionare mai le deportazioni di intiere popolazioni come i tatari di Crimea, i tedeschi del Volga le migliaia e migliaia di abitanti delle repubbliche baltiche). Il tributo pagato dall’URSS durante la seconda guerra mondiale fu altissimo (i dati attendibili parlano di 26 o 27 milioni di morti) e quindi dovette essere elaborata una complicata procedura di elaborazione del lutto che, peraltro, non coinvolgesse i vertici del PCUS e del governo, ma anzi che ignorasse le loro pesanti responsabilità, in particolare durante la fase iniziale della guerra.
Tuttavia questo rifiuto di riconoscere la specificità assoluta dello sterminio degli ebrei, il tentativo di ricomprenderli (come sottolinea spesso l’autrice del libro) nella categoria dei “pacifici cittadini sovietici” è qualcosa che davvero turba la coscienza.

Questo non-riconoscimento del carattere unico della Shoah ha avuto una serie di conseguenze, ad esempio il fatto che era vietato scrivere che alcune popolazioni delle repubbliche sovietiche, l’Ucraina in particolare, ma anche altre, furono ferocemente attive nell’aiutare i tedeschi nella “caccia all’ebreo” o che la resistenza partigiana ebraica, che vi fu e fu importante anche dal punto di vista militare, aveva una struttura diversa dalle altre formazioni partigiane. Infatti essa incorporava non solo i gruppi di combattenti, ma mirava a salvare ed organizzare anche quanti (vecchi, donne, bambini) non potevano partecipare ai combattimenti contro l’esercito tedesco.
Un esempio classico di questa situazione paradossale degli ebrei in URSS (vittime in quanto ebrei, ma cui anche questo riconoscimento veniva negato) è la vicenda del Comitato Antifascista Ebraico e del Libro Nero che esso promosse e che fu curato da V. Grossman e I. Ehrenburg.

Nel Libro Nero si documentavano, attraverso interviste, diari, documenti di diverso genere, gli orrori perpetrati dalla Wermacht e dalle SS durante l’invasione dei territori sovietici dal 1941 in avanti. Gli autori erano un giornalista e uno scrittore molto noti e assolutamente rispettosi delle direttive del Partito: Erhenburg scriveva di non ritenersi assolutamente ebreo, fino a quando non si trovò di fronte agli eccidi di massa perpetrati dalle Einsatzgruppen, Grossman svilupperà una coscienza critica proprio durante la raccolta di questi dati. Il risultato finale è una mole impressionante di documentazione, in cui tuttavia si evitava di scostarsi dalla linea ufficiale del PCUS.
Il libro aveva però, agli occhi dei censori sovietici che lo vagliarono prima di permetterne la pubblicazione, due difetti fondamentali: parlava degli eccidi degli ebrei come di un progetto specifico elaborato dallo Stato nazista per distruggere l’ebraismo europeo; nelle testimonianze troppo spesso si citavano casi di cittadini sovietici che si erano resi complici e collaboratori in questa infamia. Dunque il libro non venne mai pubblicato, i servizi di sicurezza sovietici cercarono e distrussero nelle abitazioni dei redattori tutte le copie dattiloscritti, i lavori preparatori, tutto il materiale sull’argomento. Grossman aveva però affidato una copia del dattiloscritto ad un amico, senza avvisare nessun altro. Fu così che, negli anni ’90 il Libro Nero poté esser pubblicato in Occidente.
Quanto al Comitato Antifascista Ebraico, che contribuì a raccogliere importanti fondi e altrettanto importanti simpatie e adesioni soprattutto negli USA (possiamo dire che la sua azione fu fondamentale per stimolare la catena di aiuti economici e militari all’URSS che fu uno tra gli elementi che permisero la vittoria finale sul nazismo), ebbene il suo esponente più importante, il celebre attore del teatro yiddish Solomon Michoels fu fatto eliminare da Stalin con un finto incidente stradale. Gli altri componenti furono processati per “cosmopolitismo” e “nazionalismo borghese” (cioè per il fatto di essere ebrei e di volere che questo fosse riconosciuto) e furono o fucilati o deportati in Siberia.

L’autrice del libro non si limita agli anni fino al 1945, ma, come dice il sottotitolo del libro genocidio, resistenza, rimozione, esamina il problema anche negli anni successivi.
E, tra gli altri esempi, ricorda la lettura svolta dal ventottenne poeta Evgenij Evtusenko nel settembre del 1961 (in piena era della “destalinizzazione” dunque) del poema Baij Jar, dedicato al massacro di ebrei avvenuto nel 1941 appena fuori della capitale ucraina Kiev. Il poema, che inizia con il verso Non c’è nessun monumento a Babij Jar, evoca i timori per l’abbandono e l’oblio che circondavano il sito, è scritto in puro stile “sovietico”, ed è del tutto “ortodosso” dal punto di vista dell’ideologia della ex-URSS. Eppure suscitò, come scrive la Salomoni, “una delle bufere più gravi della letteratura sovietica”, consentendo tra l’altro all’autore di apparire come un importante esponente del “dissenso” , cosa che fu poi molto giovevole alla sua carriera letteraria.
Anzi, messo sotto pressione dall’establishment del Partito, Evtusenko si piegò docilmente ad una revisione del testo in senso più “ortodosso”.
E il prologo del libro di A. Salomoni si conclude proprio con la storia di questo sito, il burrone di Banij Jar alla periferia di Kiev, in cui furono fucilati più di 100.000 ebrei. E così possiamo apprendere che nel 1966 venne deposta una stele in ucraino in cui non si faceva cenno del fatto che le “vittime del fascismo durante l’occupazione di Kiev (1941-1943)” erano in gran parte ebree. Nel 1976 sul sito fu eretta un imponente scultura in stile “realismo socialista” , la cui iscrizione, in russo e ucraino diceva: “Qui nel 1941-1943 gli invasori fascisti tedeschi hanno assassinato oltre 100.000 cittadini di Kieb e prigionieri di guerra”.
Nel gennaio del 2001 è stata collocata, dal nuovo governo ucraino, nei pressi del vecchio burrone (che nel frattempo era stato riempito di terra) in cui furono accatastati i corpi degli ebrei uccisi, una croce in memoria dei “patrioti ucraini”.

Antonella Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah, Il Mulino, pp.356 – euro 24,00