di Esterina Dana
Acquario ripubblica i racconti del Nord Africa
“Fin dall’infanzia tento sempre di dimostrare l’impossibile. Che gli uomini sono buoni, che la vita ha uno scopo, che si può migliorare il mondo, che i nostri sogni sono l’immagine del possibile”. Così comincia il primo dei sette brevi racconti de Il terremoto di Agadir di André Kaminski (lo scrittore ebreo di origine polacco-ucraina, autore di L’anno prossimo a Gerusalemme,1987), un’opera ripubblicata da Acquario a quasi quarant’anni dalla prima edizione italiana (1988) comparsa allora con il titolo de I giardini di Moulay Abdallah. È una dichiarazione di intenti ma anche una chiave interpretativa della sua poetica, che si materializza nelle storie raccontate da una medesima voce narrante, quella di un occidentale regista, produttore e direttore televisivo in cerca di attori e di nuovi aiuto-registi. Alter ego dell’autore, lavora per la televisione, francese o polacca e, nel suo peregrinare in un mondo inaspettato, si imbatte nelle profondità della complessa psiche umana su cui ci invita a riflettere. La sua naturale indole reportistica lo conduce ad esperienze al limite tra realtà e paradosso, sempre a favore del secondo. “I realisti … mi disgustavano, perché con il loro sano buon senso soffocano ogni sacro fuoco”, quel “balenio dell’antimateria” che scocca a volte negli occhi dell’Uomo, rivelando la forza dello spirito sulla carne.
Personaggi surreali sfilano dolenti tra l’Algeria e il Marocco dei primi anni Sessanta, a ridosso della guerra di liberazione dal dominio francese, come catturati dall’occhio di una cinepresa. E, proprio con una ripresa cinematografica, comincia la carrellata di episodi e situazioni a testimonianza che “può succedere l’impensabile”. È il 1963. I Francesi se ne stanno andando, la stazione televisiva, atta a manipolare i cervelli della popolazione algerina, è spenta e deserta ed è impossibile trasmettere programmi televisivi. Ma un addetto al montaggio riesce a riattivarla “senza regista, senza reporter, senza personale”, dando vita a una diretta di 14 ore, il flash mob di “Legioni e legioni [di Algerini liberi che] sfilavano [ignari] davanti alle telecamere. Uomini, donne, bambini. Una folla di straccioni in piena euforia”.
Le storie sono brulicanti di persone e di cose dove predominano il gusto dell’assurdo, l’irriverenza e l’ironia ebraica a temperare il dolore di un’umanità devastata e poi abbandonata a se stessa dai suoi colonizzatori. Il titolo dell’opera si riferisce al racconto omonimo ambientato nella città marocchina distrutta nel 1960 da un terremoto in cui morirono più di tremila persone. Con sapiente tocco narrativo, l’autore strappa un sorriso nella tragedia, mediante la grottesca narrazione di Ali, che confonde realtà e sogno, convinto di essere morto e finito in Paradiso. Ma ognuno dei racconti si focalizza su un personaggio emblematico. Come l’algerino Genfud dall’aspetto di un baccalà, per esempio, che ha imparato il tedesco per capire l’Inno alla gioia di Beethoven, o la signora Zaui, fedelissima alla legge dell’Islam, ma superstiziosa artefice di pratiche magiche. E che dire di Moulay Abdallah, il caid di Tendrara in Marocco, che scopre “la fiamma della rivoluzione” nelle ventiquattro lettere dell’alfabeto e affida ai “fedain della scienza e dell’istruzione” il compito di traghettare i suoi beduini dalla notte dei tempi a quelli moderni. Estrose creature introdotte da incipit folgoranti che ci immergono all’improvviso nel testo e delineate con uno stile asciutto di frasi concise e rapide sequenze dialogate. Talvolta il ritmo spezzato cede a descrizioni evocative dall’empatico intento fatico: “Il mondo si specchiava in interminabili pozzanghere che ci scivolavano davanti agli occhi. Il giorno era irreale. Di una trasparenza minacciosa”. Come il narratore, André Kaminski ha lavorato come corrispondente estero dal Marocco e dall’Algeria dove ha girato diversi documentari. Le sue storie, trasfigurate, sono ispirate a tale esperienza. Un incanto.
Andrè Kaminski,
Il terremoto di Agadir, Acquario,
2022, €15,00.