L’anatema contro Amalec, modello o contro-modello? I casi di Wagner, Heidegger e Céline vs. Darwish e Fairuz

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di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita] Nel capitolo 15 del Primo libro di Samuele si racconta come Saul abbia ricevuto da Dio attraverso la voce di Samuele l’ordine di combattere gli Amalechiti e di distruggere non solo la loro gente ma tutto ciò che era in loro possesso. Saul disobbedì e prese per il suo uso personale la migliore parte del bestiame del popolo vinto nonché fece prigioniero Agag, re di Amalec invece di ammazzarlo. Da questo momento, perse la sua legittimità e Dio scelse David. Qual è l’insegnamento di questo episodio della saga di Israele oggi? Non potrebbe essere usato come un paragone dell’anatema diretto ai nemici di Israele? Tale fu l’attitudine del filosofo ebreo francese di origine russa Vladimir Jankélévitch (1903-1985) quando, nel dopoguerra, decise di boicottare o in altre parole di anatematizzare tutto ciò che era tedesco, tanto nel campo filosofico che nella musica. Pur avendo scritto un dottorato su Schelling, prima della guerra, rinunciò al fascino della cultura tedesca alla quale era stato così vicino. Per quanto riguarda il suo rifiuto della musica tedesca o austriaca, fu un sacrificio non meno significativo se si considera che Jankélévitch era un musicologo appassionato.

Devo confessare che non riesco ad adottare una posizione categorica come quella di Jankélévitch nei confronti degli Amalechiti. È vero che non amo Wagner ma non perché è vietato ritrasmettere la sua musica alla radio israeliana. Anche se fosse stato lecito, non mi sarebbe piaciuto per ragioni estetiche piuttosto che ideologiche e morali. Non mi piace la filosofia di Heidegger perché la percepisco come spesso un’impostura basata su giochi etimologici o pseudo-etimologici. Detesto Céline non solo perché era un frenetico antisemita ma anche perché non amo il suo modo di estetizzare lo squallido e di scrivere in modo deliberatamente crapuloso. Tuttavia è possibile che il mio disgusto per Wagner, Heidegger e Céline derivi dalla percezione istintiva del legame che unisce la loro abietta dimensione etica con la loro produzione musicale, filosofica o letteraria.

Questo mio istinto anatematizzante si smussa quando si tratta di boicottare produzioni culturali dei nostri ostili cugini o vicini palestinesi. Mahmud Darwish (1941-2008), il poeta nazionale palestinese, è troppo incantevole per essere schivato, nonostante la sua dimensione iconica di poeta impegnato nella lotta contro Israele. Durante il governo di Ehud Barak (1999-2001), quando si credeva ancora alla possibilità di implementare gli accordi di Oslo e di stabilire una pace fra gente per bene, una delle poesie di Darwish venne anche integrata al programma di studi letterari dei licei statali israeliani. Un riflesso simile mi fa considerare la grande cantante libanese Fairuz come un prodotto culturale impossibile da anatematizzare a prescindere delle sue orientazioni nazionaliste panarabe e del suo impegno nella causa palestinese, che fece dalla cantante una vera passionaria del’OLP, della Sinistra libanese e della Grande Siria. Una delle più famose canzoni di Fairuz è Zahrat al-Mada’in “Fiore delle città”, inno alla gloria di Al-Quds (Gerusalemme in arabo), scritto dal grande poeta libanese Said Akl (1912-2014), poco dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967. È una risposta araba a Yerushalaim shel zahav (“Gerusalemme d’oro”) di Naomi Shemer. A quanto pare, Akl scrisse le parole di Zahrat al-Mada’in quando era ancora pro-siriano. Per un’ironia del destino o forse a causa degli sviluppi spesso sorprendenti della politica interna libanese, Said Akl si affiliò al partito ultra-nazionalista e ferocemente antipalestinese dei Guardiani del Cedro poco tempo dopo aver prestato la sua penna a Fairuz e ai suoi amici. Comunque la canzone Zahrat al-Mada’in costituisce un’esacerbazione del nazionalismo panarabo dove le tematiche religiose dell’Islam (il viaggio notturno di Muhammad) e del cristianesimo (Maria e Gesù bambino nella grotta di Betlemme) sono messe al servizio della causa palestinese.

Nella première di Zahrat al-Mada’in nell’estate 1967, poche settimane dopo la vittoria israeliana, il canto risuonò come una risposta artisticamente riuscita alla spettacolare sconfitta dei paesi arabi uniti contro Israele. Tuttavia, la divulgazione di questo canto attraverso i clip e altri youtube (specialmente con l’uso di simboli visuali come la Cupola della Roccia o le immagini dell’occupazione israeliana della Giudea-Samaria) lo rese più discutibile dal punto di vista estetico. Eppure la voce di Fairuz, con la sua tessitura che concilia l’asperità con il velluto, ha qualcosa di proprio angelico a prescindere del contenuto spesso aggressivo delle canzoni che interpreta. Riprendendo il tema dell’anatema, non saprei ben dire perché Fairuz e Darwish mi affascinino al punto di neutralizzare le mie velleità di anatematizzarli, mentre Wagner, Heidegger e Céline mi provocano delle reazioni quasi fisiche di rifiuto assoluto e di profondo disgusto. Forse perché non si tratta degli stessi nemici. Forse perché la qualità artistica di Mahmud Darwish e di Fairuz è così ovvia da provocare l’ammirazione a prescindere da tutto.