di Michael Soncin
Susanna Pardo era milanese a tutti gli effetti. Nata nel 1916 a Salonicco, qualche anno dopo, per volere dal padre Joseph, commerciante di tessuti, si trasferisce con la famiglia a Milano, città già a quei tempi frizzante e in pieno fermento.
Ma in che modo Susanna dalla grande casa di corso Vercelli finirà poi a Treblinka? E soprattutto quali sono i particolari che riguardano il suo tragico destino? Fino a tre anni fa questi dettagli erano sconosciuti. Oggi invece, i frammenti della sua storia sono stati ricuciti grazie al lavoro scrupoloso degli storici Sara Berger e Marcello Pezzetti.
Da corso Vercelli a Treblinka. Storia di Susanna Pardo è il libro magistralmente scritto dalla giornalista Carlotta Morgana ed impreziosito dalla prefazione di Debbie Kafka, nipote di Susanna Pardo, presentato nella serata di giovedì 1° febbraio alla Libreria Claudiana di Milano. Assieme a loro due, la memoria di questa giovane donna è stata ricordata anche da Ferruccio De Bortoli, presidente della Fondazione Corriere della Sera. I vari interventi sono stati intervallati dal flauto suonato dalla musicista Ida Febbraio.
Una ragazza moderna innamorata della sua Milano
«Susanna viveva, e continua a vivere, nel cuore dei famigliari, ma era sparita su quel treno, destinata alla morte certa. Come mai finisce a Treblinka, posto che non era notoriamente previsto per gli italiani? S’innamora del primo cugino Davide che aveva una fabbrica tessile a Monastir, l’attuale Bitolj in Bulgaria. Nel 1940 lo sposa e decide di seguirlo nei Balcani. Nel 1941 nasce la figlia Esperance. Nelle sue meravigliose lettere di tutti giorni si respira la sua voglia di tornare a Milano, nella sua casa di Corso Vercelli doveva aveva trascorso gli anni della sua infanzia e della sua giovinezza», racconta Morgana.
«Era una ragazza moderna. Aveva studiato e nel 1934 aveva trovato un impiego. Erano davvero poche le ragazze che in quei tempi andavano a lavorare. Anche dopo l’emanazione delle Leggi razziali, nel 1938, continua ad aiutare il padre nel negozio di stoffe in via Buonarroti», ha aggiunto la giornalista, ricordando che il marito di Susanna, Davide, verrà caldamente accolto dalla famiglia. È il 1940, l’Italia è già entrata in guerra. Il negozio era già stato sequestrato, ma in qualche modo l’attività continua. Susanna e Davide si sposeranno nella Sinagoga di via Guastalla, un gesto davvero rischioso per quei tempi.
Dopo il matrimonio arrivata nei Balcani scrive alla famiglia. Il legame con la casa milanese è forte. Morgana racconta che le prime lettere che spedisce sono lettere felici. Lei non riceverà risposta da quelle epistole, forse a causa della censura. Sappiamo di certo che il padre viene arrestato, perché aveva un passaporto greco. Nelle lettere successive si intuisce che le condizioni diventano sempre più difficili, ma lei cerca sempre di andare avanti. «S’immagina una vita, non Treblinka, non la morte. Il tempo passa, Davide perde il lavoro, le restrizioni aumentano e hanno poco da mangiare».
Successivamente viene portata in un campo di concentramento, una ex fabbrica di tabacchi. Parlerà prima con un sacerdote e poi con il console Roberto Venturini. Dopo vari tentativi il 16 marzo 1943 verrà deportata a Treblinka assieme alla bimba e al marito. «Nel frattempo, la famiglia in Italia è sfollata a Desio, i nazisti avevano compiuto da poco la strage sul Lago Maggiore. Quando tornano a Milano nel 1945 trovano la loro casa occupata dai fascisti». Nel libro c’è un aneddoto ben raccontato, che fa sorridere, che farà in modo che la famiglia possa riavere la casa senza troppi intoppi.
Quando tornano si presenta un quesito tuonante: “Che fine ha fatto la cara Susanna?”. «Questa dolce e radiosa ragazza morirà nel campo di concentramento di Treblinka. È una storia universale, perché uguale a quella di 6 milioni di persone che hanno fatto la stessa fine. In 14 mesi i nazisti uccideranno 900.000 persone. Quel giorno, quando sono venuta a sapere della sua storia, ho detto a me stessa: “Voglio che abbia la dignità di un libro, nero su bianco. Voglio raccontare questa storia nelle scuole elementari e medie perché quello che senti a quell’età ti rimane tutta la vita», ha detto Morgana alla fine del suo intervento, davanti ad una sala che ha fatto il tutto esaurito di prenotazioni.
De Bortoli: “La memoria serve a restituire dignità alle persone perseguitate”
«Tra le particolarità di questo libro c’è una scelta di struttura: viene lasciato spazio alle lettere. Susanna nel comporle si preoccupa dello stato di chi le leggerà. Non dico che i pericoli vengano rimandati, ma sono rimossi. L’autrice nel commentare le lettere pubblicate, racconta poi la vera realtà in tutti gli aspetti inquietanti e tragici, consentendoci inoltre, di scoprire un aspetto che riguarda la nostra città», ha affermato De Bortoli.
«Morgana spiega che nonostante ci fosse stato il fascismo, Milano era una sorta di rifugio, anche per gli altri ebrei che lasciavano alcuni luoghi di Europa, apparentemente più pericolosi. Vi era questa dimensione persino felice e spensierata. Aggiungo poi che all’epoca molti ebrei si sentivano in un certo senso più italiani degli altri italiani e anche sovranisti; perciò, il senso di tradimento provato era ancora più eclatante».
De Bortoli sottolinea che «una delle qualità di Carlotta Morgana è di descrivere come in quell’epoca si passi repentinamente dall’accoglienza alla discriminazione, fino al respingimento. Non c’è un passaggio lento ma una svolta veloce».
«I semi dell’antisemitismo dettati dal regime, hanno avuto un terreno fertile. Questo bisogna dirlo, perché ci permette di capire i tempi attuali. Indipendentemente da quello che ognuno può pensare su Israele, abbiamo assistito oggi ad un triplicarsi di episodi di antisemitismo, ai quali la società si è adattata. Sentimenti di questo tipo, dovrebbero farci riflettere, sia pensando agli anni ’30, sia ad oggi».
Quanto alla funzione della memoria De Bortoli ha poi terminato dicendo: «La memoria non è mai troppa, non deve essere un rituale, deve essere una forma di attenzione, perché con la memoria si restituisce dignità alle persone che sono state perseguitate, si esercita una forma di giustizia e forse si impedisce che in un’ansia revisionista della storia, i torti si confondano con la ragione e le vittime con i colpevoli».
“Volevo conoscere il mistero che avvolgeva la mia famiglia”
«Questa storia è entrata dentro le mie viscere. Secondo la tradizione ebraica dell’Europa dell’est, a un’anima a cui non è stato possibile completare il proprio percorso mentre era in vita, viene data una seconda possibilità reincarnandosi all’interno di un vivente, per portare a compimento la propria vita: è la figura del dibbuk, di cui troviamo un’ampia diffusione a partire dal XVII secolo in poi nella letteratura yiddish. Il dibbuk viene visto come un folletto. Ma questa è solo una storia!», esclama sorridendo Debbie Kafka. «Susanna era una ragazza con tanti sogni da realizzare. Fin dalla più tenera età, avendo vissuto con le mie zie che avevano conosciuto Susanna, ho cercato di sapere di più della sua storia. Volevo capire il mistero che avvolgeva la mia famiglia. Siamo in cinque fratelli e siamo riusciti a restituire un po’ di gioia per tutto quello che i nostri famigliari hanno perso durante la Shoah. Tutte queste persone devastate dalle persecuzioni razziali, sono persone marchiate a vita, che non riuscirono a vivere appieno la propria esistenza».
Debbie racconta al pubblico che le sue zie, come tanti altri ebrei, avevano frequentato la scuola pubblica, tutti perfettamente integrati nella società. Racconta anche dello zio Italo, nato nel 1885, combattente nella Prima Guerra Mondiale.
«Già il nome Italo la dice lunga. Duranti il nazifascismo aveva deciso di non partire, non voleva abbandonare il paese. Mio zio rimarrà a Milano, praticamente fino alla liberazione, assieme alla domestica Olimpia, con una pistola sempre nella tasca della vestaglia».
C’è una parte divertente nella ricerca della verità compiuta da Debbie Kafka. Si era interessata alla storia della zia Susanna già da piccolissima. A 8 anni in piena autonomia decidere di scrivere al Centro di Documentazione Ebraica Simon Wiesenthal di Vienna, per tentare di risolvere quell’enigma. «Ovviamente a quella lettera – forse senza francobollo – non c’è stata mai risposta», sorride.
Debbie poi cresce, maturando conoscenze storiche che prima le mancavano, intervistando i suoi famigliari, arrivando infine qualche anno fa a Pezzetti e Berger. Sapeva che sua zia era morta, ma non come. «I due storici erano venuti a conoscenza di questi incredibili documenti all’interno di un armadio a Roma, con fuori scritto su un foglio A4 “ebrei”».
«Quando nel 2019 sono andata a Treblinka, non immaginavo che sotto i nostri piedi ci fossero enormi fosse comuni, perché ogni traccia era stata cancellata. Va ricordato che Treblinka era il campo della morte. La gente andava lì per morire e basta. Ho saputo dallo storico Michele Sarfatti che mia zia è stata l’ultima a morire, patendo le pene fino all’ultimo istante. Il campo era gestito dai bulgari, che erano di una cattiveria immane. Sarfatti mi ha anche lasciato basita raccontandomi che in tutto questo c’è stato un minimo coinvolgimento da parte dell’Italia, perché i treni passavano sul suolo italiano, ed era quindi evidente che servisse un’autorizzazione».
Una volta conosciuta, la storia di Susanna non ti lascia più. La porti con te, nel cuore. Non pensateci due volte. Leggetela.
Carlotta Morgana, Da Corso Vercelli a Treblinka. Storia di Susanna Pardo, Giuntina, pp. 144, euro 16.00
Nella foto di apertura da sinistra: Carlotta Morgana e Debbie Kafka