La scrittura è un esercizio di empatia

Libri

di David Zebuloni

Intervista a Etgar Keret: “Esistono scrittori che non sanno guidarti, ma che si perdono insieme a te per le strade di questi mondi sconosciuti. Io sono uno scrittore di questo tipo”

 

Il New York Times ha definito Etgar Keret “un genio”. E come dargli torto? Eclettico, ironico e fuori da ogni schema, Keret è uno degli scrittori israeliani contemporanei più apprezzati al mondo. I suoi libri sono stati tradotti in più di trentacinque lingue, i premi ricevuti sono troppi da menzionare e per molti Keret è diventato l’emblema dei racconti brevi. Un genere letterario da molti snobbato che l’autore israeliano è riuscito a portare alla ribalta. Lo incontro nella sua amata Tel Aviv, dove abita insieme alla moglie, al figlio e al coniglio. Si presenta con un paraorecchie piuttosto buffo e un cappotto da montagna, nonostante fuori ci sia il sole. Controlla sempre l’orologio, ma dice di non essere mai di fretta. Mentre cerchiamo un bar tranquillo in cui sederci, Keret mi racconta del suo ultimo lungo viaggio.
Quello in Francia, dove sta girando un cortometraggio. Mi rendo conto che il suo modo di parlare è assolutamente singolare. Ogni affermazione è accompagnata da un esempio, una metafora o una similitudine. Lo ascolto mentre lui pare un fiume in piena.
Si esprime proprio come scrive, in maniera semplice e appassionante. Prima di entrare nel bar mi racconta di aver comprato diversi anni fa in Italia una maglietta con sopra scritto Bad decisions makes good stories. Fino ad oggi, la sua maglietta preferita.

Come nascono i tuoi racconti Etgar? Mi sembrano così sconnessi dalla realtà, che da lettore mi domando sempre quale sia la loro matrice.
Il mio lavoro di scrittore consiste nel riuscire a riconoscere una determinata emozione e darle un nome. Ti faccio un esempio. Un giorno ero alla fermata dell’autobus e accanto a me c’era un signore con il caffè in mano e il giornale sotto l’ascella. Nel tentativo di bere il caffè, il signore ha fatto cadere il giornale. Ci siamo guardati, lui sembrava imbarazzato, mi ha sorriso e ha raccolto il giornale. Questo episodio si è ripetuto una seconda volta e alla terza, quando il signore ormai sembrava essere davvero in difficoltà, sono scoppiato a piangere. Quando ho raccontato a mia moglie l’episodio le ho detto “oggi ho visto la cosa più triste del mondo”. Lei non capiva il mio struggimento, pensava che il signore fosse semplicemente un idiota, così le ho spiegato che non piangevo per ciò che avevo visto. Piangevo per me stesso. Quel signore con il caffè e il giornale mi aveva aiutato a riconoscere un’emozione e capire meglio me stesso. Anch’io sono come lui: sbaglio sempre e non imparo mai dai miei errori.

Ti sorprende il fatto che le persone riescano ad immedesimarsi nei tuoi racconti?
All’inizio sì. Per esempio, quando ho cominciato a scrivere balbettavo. Probabilmente mi sentivo così incompreso da pensare che ciò che avevo da dire non aveva alcuna legittimazione. Adesso non balbetto più.

Sei diventato famoso grazie alle tue raccolte di racconti brevi. Pensi che ci si possa affezionare ad un racconto tanto quanto ci si possa affezionare ad un romanzo?
Molti sostengono di no, ma io credo di sì. Per farti un esempio, uno dei miei racconti più celebri e apprezzati si intitola Attacco d’asma ed è composto da poche righe. Una volta un lettore mi fermò per strada ed estrasse dal suo portafoglio questo mio racconto piegato e ripiegato su se stesso, quasi come fosse un salmo. Mi disse: “Il tuo racconto mi ha cambiato la vita, lo tengo sempre con me”. Se ci pensi, il romanzo e il racconto breve non sono poi così diversi. Uno è paragonabile a un filmato e l’altro a una fotografia.

Entrambi raccontano lo stesso evento da prospettive diverse.
Esatto. Per esempio, se il romanzo fosse il dipinto dell’Ultima Cena, il racconto breve sarebbe lo zoom-in su Giuda. Un po’ surreale, ma mi riferisco ad un qualcosa di molto specifico. Capisci? Il racconto breve è come l’aceto balsamico. Prendi un sapore e lo comprimi a tal punto da portarlo allo stremo. Il romanzo ti permette di sostare in un mondo parallelo per giorni, talvolta settimane o mesi. Il racconto breve ti fa entrare e dopo un attimo ti dà uno schiaffo e ti butta fuori con la forza.

Il tuo ultimo libro Un intoppo ai limiti della galassia ha vinto il prestigioso Premio Sapir per la letteratura, l’anno scorso. Cerchi ancora conferme da parte della critica o non le dai più molta importanza?
Vincere un premio letterario per me è come vincere alla lotteria. Lo desidero moltissimo, ma non riconosco in esso nulla di nobile. So che se il mio libro vincesse un premio, automaticamente verrebbe letto da più persone, per questo ci tengo. Non per altro. Se domani dovessi vincere il Premio Nobel, non credo che mi sveglierei la mattina con la consapevolezza di essere uno scrittore migliore. D’altronde chi sceglie di assegnare il premio non è altro che una giuria composta da cinque persone chiuse in una stanza, sedute attorno a un tavolo, mentre mangiano dei biscotti.

Già che lo citi, ti capita mai di fantasticare sul Premio Nobel per la letteratura?
Credo che la mia scrittura sia troppo cult e non abbastanza elitista per poter ambire a un premio di questo calibro. E poi, stiamo parlando di un premio storicamente
conservatore, che tiene conto dell’identità politica dell’autore. Non fa per me.

In effetti, quasi mi sorprende il tuo successo fuori dai confini di Israele. Ai lettori europei per esempio, piacciono gli autori israeliani politicamente schierati. Paragonato ad Amos Oz, David Grossman ed Eshkol Nevo, tu sei piuttosto apolitico.
Credo che la mia identità politica sia nota a tutti ormai. Tuttavia, penso che l’incontro con i miei lettori sia completamente diverso da quello che poteva avere un Amos Oz con i suoi. Esistono gli scrittori che sono guide, che ti mostrano le bellezze di mondi sconosciuti. Esistono poi gli scrittori che non sanno guidarti, ma che si perdono insieme a te per le strade di questi mondi sconosciuti. Io credo di far parte della seconda categoria.

Sei sempre così sarcastico Etgar, anche quando scrivi della morte di tuo padre in Sette anni di felicità lo fai con un pizzico di ironia. Ti capita mai di essere triste?
L’umorismo è una qualità estremamente ebraica e ti permette di guardare la realtà da un’altra prospettiva. Quando sono triste penso a ciò che mi sta capitando dall’esterno e d’un tratto mi sento un po’ ridicolo. Siamo così egocentrici a pensare che le cose peggiori capitino sempre a noi. Se continuassimo a guardare la realtà solo dall’interno, rischieremmo di svegliarci un giorno ed essere Donald Trump.

In un tuo racconto scrivi di un Dio sulla sedia a rotelle e dici che l’idea che anche Dio soffra ti fa sentire fortunato. Perché?
Quando ero piccolo mi dissero che l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Pensai immediatamente che Dio doveva essere estremamente violento e intollerante, perché queste erano le “qualità” che riconoscevo nelle persone intorno a me. Sono cresciuto con la convinzione che l’uomo è imperfetto perché Dio stesso è imperfetto, e sapere che anche Dio è imperfetto mi aiuta ad accettare la realtà circostante.

In un altro racconto cerchi disperatamente di convincere un ragazzo a non buttarsi dalla finestra. Credi davvero che la vita sia troppo pesante da sopportare?
Ho sempre pensato alla vita come a un film: se non ti piace alzati ed esci. Nessuno ti obbliga a restare. Il mio migliore amico si è suicidato, la mia prima fidanzata si è suicidata e anche l’ultima ragazza che ho avuto prima di sposarmi si è suicidata. Credo di essere sempre stato attratto dalle persone che soffrono. Solo riconoscendo il proprio dolore e il dolore altrui si può rispettare la vita. E la vita non solo va vissuta, ma va anche rispettata.

Eppure il ragazzo salta comunque, decide di farla finita. Non sei riuscito a salvarlo.
La scrittura è per me un esercizio di empatia. Mi permette di immedesimarmi negli altri. Dovevo accettare la sua decisione.

E perché secondo te vale la pena di vivere?
Per gli altri. Se mi proponessero di rimanere l’ultimo essere umano vivo sulla terra, probabilmente rifiuterei. Non sarebbe vita per me, non avrei nessuno da cui imparare qualcosa di nuovo.