I GIUSTI. Gli eroi sconosciuti dell’Olocausto

Libri

MARTIN GILBERT – I GIUSTI. Gli eroi sconosciuti dell’Olocausto. – Città Nuova, pp. 510, euro 28,00

Martin Gilbert è uno degli storici britannici del XX secolo più noti. Come per molti altri storici anglosassoni la rigorosa documentazione e le ricerche approfondite si accompagnano nelle sue opere ad una capacità narrativa e ad uno stile espositivo di grande leggibilità, senza quell’aridità erudita che spinge il lettore non accademico o specialista chiudere il libro dopo poche pagine.
In quest’opera, uscita in edizione originale nel 2002, Gilbert espone i risultati di un suo lavoro di ricerca negli archivi di Yad Vashem, nel dipartimento di Giusti, diretto per più di vent’anni da Mordechai Paldiel, cui il libro è dedicato in segno di gratitudine.
Sono storie, tante, moltissime storie di ebrei e di ebree, piccoli, grandi, vecchi, di singoli travolti dalla bufera o di intiere famiglie e gruppi di persone alla disperata ricerca di un luogo di rifugio per sfuggire alle belve naziste, quasi un catalogo impressionante. Ad alcune storie sono dedicate solo poche righe ad altre uno spazio più ampio. In ogni caso si tratta di una lettura difficile e faticosa, a dispetto dello stile narrativo: dietro ogni storia ci sono state delle persone, come non pensarlo? Rimanere nascosti in buco sotto terra per più di un anno, non essere più capaci di camminare quando si esce dal nascondiglio nella dispensa in cui si è rimasti per mesi e mesi, camminare carponi sotto le finestre per evitare sguardi indiscreti, temere ogni giorno e ogni notte il rumore degli scarponi chiodati sulle scale, vagare disperatamente nel gelo invernale della Polonia o dell’Ucraina cercando un posto in cui nascondersi… Ogni storia narrata, anche in poche righe quanta sofferenza umana cela dentro di sé, e quanti lutti. E come non pensare che queste storie, pur essendo tante, sono solo una piccola minoranza rispetto a quelle che ebbero esito diverso: qualche migliaio di persone furono salvate dagli hasidei umot haolam, i giusti tra le nazioni, ma gli altri?
Credo che valga la pena di soffermarsi su alcuni aspetti di questo libro che Gilbert lascia filtrare di tanto in tanto, come se fossero considerazioni apparentemente secondarie, ma che ne costituiscono un aspetto molto interessante. Sono considerazioni esposte dai testimoni, dagli ebrei salvati dai giusti che Gilbert ripropone, senza nessuna considerazione personale né alcuna valutazione esplicita di tipo etico, ma che proprio per questa ragione diventano ancora più importanti.
Ad esempio filtra di tanto in tanto, ma si evince che fosse quasi la norma nelle zone dell’Europa orientale occupate dai tedeschi, che le persone che accettavano di correre il rischio di ospitare degli ebrei (la pena era la morte per tutti i componenti della famiglia ospitante, oltre che di quella accolta) richiedessero un compenso in denaro o oggetti preziosi. Infatti diverse testimonianze esprimono esplicitamente la loro gratitudine perché chi li nascose, e quindi salvò le loro vite mettendo comunque a repentaglio la propria, non volle alcune ricompense, notandolo come qualcosa di insolito. Ma questo comporta che la sorte di chi non era in grado di riscattare materialmente il proprio essere nascosto era già segnata in partenza. E molti giusti sono tali pur essendo mercenari? Il libro è un libro sui “buoni”, dunque evita per quanto possibile di parlare dei “cattivi”, di quanti denunciarono agli occupanti la presenza di ebrei, di quanti carpirono loro tutto il possibile per poi denunciarli, di quanti collaborarono alla cattura e alla morte degli ebrei loro concittadini, loro vicini e persino loro amici. Ma, come in una sorta di filigrana, questo tessuto salta agli occhi, ad esempio nella sottolineatura della “diversità “ di quanti furono leali e disponibili a mettere in gioco la propria vita, per salvare degli esseri umani, colpevoli solo di avere dei nonni iscritti ad una comunità ebraica. Diversi da chi e diversi da quanti?
Molti ebrei ebbero salva la vita, ma ad un prezzo particolare: il non essere più ebrei. Si tratta di un fenomeno particolarmente diffuso nell’Europa orientale ma accaduto, ad esempio anche in Francia ed in Italia: i bambini e gli adolescenti venivano accolti nelle famiglie cattoliche, addirittura entravano a farne parte, venivano in un certo senso adottati, talora davvero accettati come figli e figlie, ma cresciuti nell’osservanza religiosa cattolica. Nei casi di ospitalità presso conventi e comunità religiose la dissimulazione era d’obbligo in maniera particolare. Ma lo era anche per superare i controlli di polizia e lo sguardo malevolo dei vicini. Bisognava andare in chiesa la domenica, farsi il segno della croce e recitare ad alta voce le preghiere più conosciute per non essere identificati come ebrei, anziché come il “nipote venuto da Varsavia”. Spesso però la necessità di questa dissimulazione si confuse con l’intento di conversione. Passata la bufera, diventate adulte, queste persone ebbero spesso dei problemi di identità personale, in altri casi, invece vissero tranquillamente e serenamente la loro vita di fede all’interno del mondo cattolico. Certo ebbero salva la vita, questo non va dimenticato.
Né va dimenticato che ci furono invece molti altri casi in cui i cristiani che nascondevano gli ebrei si preoccuparono di rispettare la loro identità: addirittura un convitto religioso cattolico il cui responsabile annota che è l’unico esistente ad offrire una mensa kasher.
In parallelo non si può non notare l’atteggiamento particolare che ebbero esponenti di minoranze religiose cristiane citati nel libro di Gilbert: i battisti polacchi, il pentecostale norvegese, il metodista svizzero e quello finlandese, l’armeno in Ungheria, i valdesi in Italia, i protestanti francesi di Chambon-sur-le-Lignon che mobilitano una serie di piccoli villaggi (5.000 persone) per costruire una rete di solidarietà e di aiuto a centinaia e centinaia di ragazzini ebrei, organizzandone la permanenza e poi l’espatrio in Svizzera e in Spagna. In questi casi si nota una sorta di simpatia di fondo, dovuta alla comune condizione di minoranza religiosa che era accompagnata una reale stima per il popolo dell’alleanza del Sinai.
E qui affiora la domanda che Gilbert si pone esplicitamente nella conclusione, ma che affiora continuamente nelle testimonianze dei giusti tra le nazioni e nel corso del libro: perché lo hai fatto? Perché hai corso questo rischio tremendo per salvare delle persone che in buona parte dei casi erano perfettamente sconosciute? Oppure che erano conosciute, erano datori di lavoro, amici, clienti. Ma prima della bufera, prima dello Stermino. E alcuni di questi “salvatori” sono antisemiti, spesso militanti, alcuni anche iscritti al partito nazista o esplicitamente fascisti (è il caso di ricordare Perlasca?).
E la risposta è sconvolgente nella sua apparente banalità: perché era giusto farlo. Contadini (soprattutto contadini), casalinghe, docenti universitari, impiegati, operai, sono concordi con una risposta che nella sua apparente semplicità impone una riflessione profonda.

Un’ultima considerazione: Gilbert accetta senza troppi problemi il mito del “bravo italiano”. Salvo gli esponenti del regime fascista e qualche eccezione di poco conto, gli italiani si sarebbero comportati in maniera accettabile, se non onorevole, nei confronti degli ebrei loro connazionali e degli ebrei provenienti da altri paesi europei rifugiatisi in Italia o nelle zone di occupazione italiana in Francia, Croazia e persino in Russia.
Purtroppo però sono ormai molti gli storici e i ricercatori, da Sarfatti a Bidussa, da Del Boca a Rochat e Franzinelli, che ci hanno spiegato come le cose siano andate diversamente. Ed anche molti dei testimoni, dei sopravvissuti alla deportazione ci hanno raccontato le responsabilità di italiani nelle denunce che hanno portato ai loro arresti. E quale fu l’atteggiamento della stragrande maggioranza degli italiani che ebbero vantaggi dalle leggi razziali del 1938 nei confronti dei loro colleghi destituiti e allontanati dei posti di lavoro che essi poterono ricoprire? E siamo così sicuri che i comandi militari italiani in Provenza “sabotassero” le norme emanate dalle autorità tedesche di occupazione per simpatia verso gli ebrei o per semplice e generico umanitarismo, o non ci fosse di mezzo un conflitto di competenze per il controllo del territorio e della popolazione?
Devo notare infine che, purtroppo, sul libro pesa una scarsa accuratezza redazionale che rende talora poco scorrevole la lettura.