Gioele Dix. A ritroso, un viaggio nella storia segreta di mio padre

Libri

di Ilaria Myr

Che, oltre a essere un bravissimo attore, Gioele Dix (al secolo David Ottolenghi) fosse anche un ottimo scrittore, lo si era già visto nei diversi libri che ha pubblicato negli anni, come Il manuale del vero automobilista, Cinque Dix, La Bibbia ha (quasi) sempre ragione, Manuale dell’automobilista incazzato, e in Si vede che era destino, del 2010 (proprio in occasione dell’uscita di questo testo, aveva raccontato al Bollettino la sua vita ebraica, come vive la sua identità e quanto essa impatta sulla sua professione di attore – vedi Bollettino dicembre 2010). E, oggi che è uscito il suo nuovo libro, l’ennesima conferma. Presentato a Milano il 17 marzo al teatro Franco Parenti e in vendita nelle librerie da fine marzo, Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali (Mondadori, 2014, 156 pag., € 16,50) è un testo molto diverso dagli altri dell’autore, dai temi e dai toni molto più seri e, soprattutto, profondamente autobiografico. Il libro narra infatti, in prima persona, la storia del giovane Vittorio – il padre oggi 85enne di Gioele Dix – che vive sulla propria pelle la discriminazione delle leggi razziali fasciste. E poi, dopo l’8 settembre 1943, con i tedeschi occupanti che chiedono le liste dei cittadini di razza non ariana per deportarli verso lo sterminio, comincia il racconto dei giorni più difficili, quelli in cui determinazione e fortuna saranno decisivi per mettersi in salvo. La rocambolesca fuga in Svizzera e il lungo esilio lontano dalla sua famiglia faranno crescere Vittorio più in fretta del previsto, ma non gli toglieranno fiducia nella vita e nelle tante persone buone di cui, per fortuna, il mondo è ancora pieno.
Insomma, una storia di una famiglia ebraica italiana che come molte altre fu colta di sorpresa dalle leggi razziali, e di un ragazzino che non  capisce perché deve lasciare la propria scuola, la propria casa, mettere tutto quello che può dentro uno zaino e fuggire. Ma è soprattutto la storia della famiglia di David Ottolenghi-Gioele Dix, che con quest’opera compie un importante viaggio a ritroso nella sue radici.
A lui il compito di spiegarci come è nato il progetto e come è stato sviluppato.

Come nasce Quando tutto questo sarà finito? Come hai recuperato il materiale?
Questo libro nasce da una mia personale e fortissima curiosità nei confronti della storia della mia famiglia, una classica famiglia ebraica italiana che ha vissuto l’esperienza della guerra e delle leggi razziali, ma che, nonostante qualche episodio drammatico, è comunque riuscita a salvarsi. Ne avevo sempre sentito parlare in casa, un po’ a spizzichi e bocconi. Perché, come spesso accadeva, non c’era molta disponibilità a chiacchierare da parte di chi era sopravvissuto alla guerra: un po’, sicuramente, perché si tratta di fatti dolorosi, ma senza dubbio anche perché dopo la guerra era necessario tirare avanti con energia, senza guardarsi indietro. Mio nonno mi aveva detto qualcosa, mentre mia nonna aveva steso un pesante silenzio su quei fatti: la morte del figlio Stefano era ancora troppo dolente. Mio padre, invece, era riuscito a darmi qualche dettaglio interessante, condividendo con me i suoi ricordi di ragazzo dell’epoca. Solo tre anni fa, però, ho deciso di affrontare questa storia in modo approfondito. Per alcuni giorni mi sono fatto raccontare tutto da lui, dall’inizio alla fine, per poi fare un viaggio in Svizzera, dove erano riusciti a scappare. Lì, a Basilea, nei luoghi dove aveva vissuto la maggior parte del suo esilio, ho visto mio padre, oggi 85enne, ricomporre pian piano brandelli sparpagliati di ricordi.

Che cosa ha significato per Davide-Gioele questo viaggio nella storia della famiglia?
Sono molto contento di questo lavoro. Sono infatti convinto che lavorare sulla memoria significhi coltivare le nostre radici, ricordare da dove veniamo, e trovare così la quadratura della propria vita. Sapevo poi che era una bella storia ebraica italiana da raccontare: italiani da generazioni, un nonno mazziniano nel Risorgimento. Per questi e altri motivi, per loro, come per tanti altri, le leggi razziali furono una ferita doppia, che li relegò allo status di cittadini di serie B e che li spinse addirittura a dovere lasciare il loro Paese. Ma tu lo sapevi che gli ebrei non potevano nemmeno allevare piccioni viaggiatori? Ascoltando i racconti di mio padre, ho avuto prova di quanto fosse perversa la burocrazia italiana, che aveva dato le liste degli ebrei ai tedeschi. Non mi rendevo conto della forza di questa storia fino a quando non ho cominciato a scriverla.

Dal punto di vista stilistico, hai deciso di utilizzare la prima persona, come se fosse tuo padre a raccontare i fatti. Che cosa ha significato questa scelta?
Scegliere l’io narrante e attribuirlo a mio padre è stata senza dubbio un’operazione complessa, perché quando dai voce a qualcuno che è anche il tuo genitore cerchi sempre di capire fin dove puoi spingerti. Ma sono convinto che utilizzare la prima persona, attribuendola a chi all’epoca dei fatti era bambino e poi ragazzo, renda il racconto ancora più vivo e vibrante. La microstoria, inserita nella grande Storia, ne esce con grandissima forza emotiva.

Da quando hai presentato il libro, sei stato chiamato in alcune scuole italiane a parlarne. Che cosa significa questo per te?
Molti istituti mi stanno chiedendo di andare a raccontare il libro e a discuterne con i ragazzi, e questo è per me una bella esperienza: soprattutto, è un modo per ridare vitalità alla memoria, troppo spesso confinata solo alle giornate rituali – vedi il Giorno della memoria – che, nonostante siano fondamentali, tendono a diventare degli appuntamenti freddi. E poi, il fatto che il protagonista di questo libro sia un ragazzo coetaneo degli studenti, che deve fare i conti con la sua diversità – che pure lui non sa bene quale sia -, ha una grande forza sui ragazzi. Anche perché oggi parlare di discriminazione e razzismo è più attuale che mai. Nel libro, cerco però di sottolineare anche la bontà di molte persone in cui si imbatterono i miei famigliari, come la Guardia di Finanza che li conosceva, che li portò al confine con la Svizzera, aiutandoli così a passare dall’altra parte. È giusto che i giovani sappiano anche che con atti generosi e di coraggio si può fare la differenza.
In questo ruolo di divulgatore della memoria nelle scuole, quanto pesa il tuo essere attore?
Io ormai da anni sono un comunicatore per professione, e questo mi ha portato a capire come trovare la chiave giusta per entrare nel cuore di chi mi ascolta. Se ripenso agli inizi della mia carriera, dove mi sarei polverizzato di terrore al solo pensiero di fare spettacoli davanti a 300 persone…Ma questo è anche un aspetto che ho ereditato da mio nonno, capace di parlare con tutti: dal collega mercante agli aristocratici inglesi fino al garagista milanese. Lui era ben cosciente che a seconda di chi ti rivolgevi dovevi cambiare linguaggio e anche lingua. Lo stesso vale quando parli con i ragazzi: ci vuole semplicemente leggerezza e naturalezza per coinvolgerli. E se dovessi giudicare i giovani da quelli che ho incontrato fino a oggi nelle scuole, direi che sono persone attente e interessate.

Scrivere questo libro, ricostruire le tue radici e la storia della tua famiglia, ha in qualche modo impattato sulla tua identità ebraica?
No, al contrario: la mia identità è sempre stata molto forte, e questo lavoro è proprio il frutto di questo legame. Pur frequentando diversi ambienti e “mischiandomi” sempre, non ho mai nutrito dubbi sui miei legami con l’ebraismo e sulla mia fede. Esistono infiniti modi di essere ebrei. Anzi, sono convinto che se metti insieme 100 ebrei, troverai 101 identità diverse. Questo è il bello dell’ebraismo.
“Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali” (Mondadori, 2014, 156 pag., € 16,50)