di Anna Balestrieri
Il 12 agosto 2025 si è aperto, con un incontro online via Zoom, il nuovo ciclo di conferenze dell’Associazione Culturale Nodedim dedicato agli scrittori israeliani contemporanei. Nodedim – “erranti” – è un’associazione impegnata nella promozione della cultura ebraica in Italia, che opera principalmente online per raggiungere il pubblico più ampio possibile. Oltre a incontri letterari, organizza corsi di alto livello su temi come l’antisemitismo nell’arte, la musica ebraica, e la lingua ebraica.
Il primo appuntamento Nodedim
Protagonista del primo appuntamento è stata Zeruya Shalev, una delle voci più amate e tradotte della letteratura israeliana, autrice di romanzi pubblicati in 27 lingue. A dialogare con lei, Elena Loewenthal, scrittrice, traduttrice e studiosa di cultura ebraica, che ha definito la lettura e la traduzione di Shalev “un esercizio di stupore” e “fuori discussione la voce femminile letteraria più grande dell’Israele contemporaneo”. L’ingrediente essenziale, per Loewenthal, è la capacità di Shalev di esplorare “l’universo interiore umano, in particolare femminile”.
Il dialogo con la traduttrice Elena Loewenthal
La conversazione si è aperta con una domanda diretta: «Come si rapporta uno scrittore dell’Israele moderno alla guerra?» Shalev, visibilmente commossa, ha raccontato di aver interrotto la scrittura del suo nuovo libro per quasi un anno dopo il 7 ottobre 2023: «Ero paralizzata, nonostante avessi già scritto un terzo del libro. Mi sembrava insignificante scrivere in quel periodo». Il ritorno alla scrittura, ha spiegato, è passato anche attraverso la figura di Leah Goldberg, non come fuga dalla realtà, ma come esercizio di contemplazione distaccata in un contesto di guerra. Riprendere in mano il testo è stato doloroso: ha significato rileggere i giornali dell’estate 2023, pieni di dibattiti sulla riforma giudiziaria, che dopo il 7 ottobre le sono apparsi anacronistici.
I primi passi e il legame indissoluto con la poesia
Loewenthal ha ricordato anche l’ultimo libro di Shalev tradotto in italiano ma non ancora uscito, Rokdim omdim: «Aveva un aspetto scomposto perché veniva da un periodo in cui scrivevo poesia ed era troppo provocatorio. Ha ricevuto recensioni disastrose e mi sentivo un fallimento; non pensavo sarei riuscita a tornare a scrivere in maniera autentica».
Il dolore, per Shalev, non è materia astratta. Nel 2004 fu vittima di un attentato suicida a Gerusalemme: «Non potrò mai dimenticare quel giorno, ma non è con l’odio o con la sete di vendetta che si ferma la violenza». Aveva raccontato a Mosaico un episodio che per lei rimane un simbolo di umanità: l’incontro con il suo fruttivendolo palestinese, che, appresa la notizia, la abbracciò in silenzio e le disse: «Mi dispiace. Mi dispiace tanto». «Basta un gesto così per ritrovare la speranza» ha commentato l’autrice, che non ha mai perso fiducia nel genere umano e nell’amore per Israele, educando i figli a immedesimarsi nelle sofferenze dei bambini palestinesi.
In Italia, Shalev ha presentato anche il suo romanzo Quel che resta della vita (She’erit ha-chaim, traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli), definito dalla traduttrice “un romanzo pieno di dolore ma anche pieno di vita”. Ambientato tra presente e memoria, il libro si apre con Hemda Horowitz, madre anziana in un letto d’ospedale, circondata da figli e nipoti, e riflette sulla vecchiaia, il senso dell’amore, e la frattura tra generazioni. Nel nuovo lavoro, l’autrice torna anche agli anni 1947-48, guardando agli eventi attraverso gli occhi di una bambina cresciuta in kibbutz, nel contesto particolare delle stanze dei bambini, per esplorare la complessità della società ebraica dell’epoca, sia nei rapporti con gli arabi che nelle sue dinamiche interne.
In chiusura, Loewenthal ha sottolineato due caratteristiche ricorrenti nei libri di Shalev: la dimensione onirica e l’assenza di giudizio. L’autrice ha spiegato: «Per me è molto importante essere il meno giudicante possibile quando scrivo e trovare in me stessa la capacità di immedesimarmi in ogni personaggio. I sogni nascono spontaneamente, e li associo alla mia esperienza poetica».
Il pubblico ha così potuto ascoltare una voce letteraria capace di attraversare il dolore e trasformarlo in introspezione, rinnovando la fiducia nel potere della parola come strumento di resilienza e di comprensione umana.