di Andrea Finzi e Sonia Schoonejans
Una Mostra a Parigi sull’Affaire Dreyfus. Non una vittima passiva, ma un indomito combattente, che fino all’ultimo lottò per far valere la propria dignità e diritti, violati da un establishment militare profondamente antisemita. Al Mahj nuovi elementi per una migliore comprensione dell’Affaire
Le la storia dell’“Affaire Dreyfus” è molto conosciuta, molto meno lo è la personalità del suo principale protagonista. La mostra Alfred Dreyfus. Verità e Giustizia proposta dal MAHJ (Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme) di Parigi dal 13 marzo al 31 agosto, quasi vent’anni dopo una precedente esposizione, riporta Alfred Dreyfus al centro dell’“Affaire”. Vi si rivela un indomito combattente per la verità che, invece di essere la semplice vittima passiva di un antisemitismo infame, si batte per il suo onore con tutti i mezzi, soprattutto con i suoi scritti pubblicati soltanto nel 2024 (Oeuvres complètes). Paradossalmente, la figura distorta di gran borghese distaccato e antipatico era stata forgiata dai suoi più ferventi sostenitori: Charles Peguy (“Era com’era, e non come noi avevamo sognato”), Léon Blum (“Non aveva alcuna affinità con il suo caso e non l’aveva capito”), Anatole France (“Era lo stesso tipo di ufficiale di quelli che lo hanno condannato”). Questa immagine è persistita fino al saggio L’Affaire di Jean Denis Bredin del 1993 ed al recente film J’accuse di Roman Polanski del 2019 che, pur essendo ben fatto, non sfugge all’abituale cliché, attribuendo il ruolo centrale al Generale Georges Picquart, senza alcun riguardo per la verità storica.
Una storia da riscrivere
L’attuale esposizione, curata da Isabelle Cahn e Philippe Oriol, presenta il magnifico corpus documentale conservato al MAHJ, ancora recentemente arricchito, oltre a prestiti di numerosi musei francesi e stranieri, per un totale di circa 250 documenti, fotografie, filmati e 60 opere d’arte.
Ai risultati della ricerca recente, si aggiungono nuovi tasselli per la comprensione e l’inquadramento storico dei fatti, della personalità di Dreyfus e delle conseguenze dell’“Affaire” sulla società francese, su come fece da catalizzatore di un antisemitismo mai sopito e della risposta da parte della coscienza civile e repubblicana; infine, vuole educare i giovani e rispondere agli incitatori all’odio, non solo antisemita, e ai falsificatori della verità.
La mostra si articola in quattro fasi che vanno dall’arresto nel 1894 al 1908 quando Dreyfus, già innocente e riabilitato, fu vittima di un tentativo di omicidio durante la cerimonia di traslazione al Pantheon delle ceneri di Zola.
Arrestato il 15 ottobre 1894 con l’accusa di aver trasmesso segreti militari francesi all’ambasciata tedesca, Alfred Dreyfus venne condannato nel dicembre successivo sulla base di perizie grafologiche inconcludenti e di false testimonianze dopo un processo-farsa a porte chiuse durato solo quattro giorni nel quale il Generale Mercier, ministro della Guerra, per salvare il suo avvenire politico, aveva presentato ai giudici militari un dossier segreto all’insaputa dell’imputato e del suo avvocato difensore. Seguì, il 5 gennaio 1895, la degradazione con strappo dei gradi e rottura della spada nel piazzale dell’Ėcole Militaire di fronte ad una grande folla, scena immortalata e diffusa dalla stampa e dai primi cinegiornali.
L’ingiusta condanna senza prove era la logica conseguenza dell’antisemitismo che pervadeva lo Stato Maggiore dell’Esercito (Dreyfus era l’unico ufficiale ebreo al suo interno) e molti ambienti della società francese. Vi era poi un particolare non secondario: Dreyfus, nato nel 1859, proveniva da una famiglia ebraica alsaziana, il nonno materno era un moel e suo padre, già venditore ambulante divenuto piccolo produttore di tessuti, dopo la sconfitta francese del 1870 e la cessione alla Germania dell’Alsazia-Lorena, aveva scelto per sé e per la famiglia di mantenere la nazionalità francese ma, per difficoltà economiche, non era riuscito a spostare oltreconfine la sua attività: per questo rimase a Mulhouse, divenuta parte dell’Impero del Kaiser. Questo dramma nazionale e familiare pesò sulla decisione di Alfred, trasferito a Parigi per studiare, di avviarsi alla carriera militare lasciando dopo due anni il Politecnico per entrare alla Scuola d’applicazione di Artiglieria e quindi alla Scuola Superiore di Guerra nel 1890. Quale miglior esempio di traditore infiltrato nel cuore dell’Esercito di una nazione in pieno delirio revanscista di un Ebreo “transfrontaliero”? In più, spesso si recava a trovare, talvolta in segreto, la famiglia in terra “nemica”.
In quegli anni il processo di integrazione degli ebrei giunti dall’Europa centro-orientale dopo l’Emancipazione del 1791 si scontrava con un antisemitismo di matrice cattolica, populista e xenofoba alimentato da pubblicazioni come il best seller La France Juive di Edouard Drumont del 1886 e il suo giornale La libre Parole, megafono del gruppo parlamentare antisemita che faceva dell’odio antiebraico la sua sola ragione d’essere.
Alla fine di un processo così iniquo, Dreyfus fu il primo a rimanere stupefatto: “L’assoluzione mi sembrava certa, sono stato condannato!”. Ma già pochi giorni dopo, al momento della cerimonia umiliante della degradazione, non rinunciò a proclamare il suo attaccamento alla Repubblica e gridò: “Soldati, si degrada un innocente, si disonora un innocente. Viva la Francia, viva l’Esercito!”.
La degradazione antisemita
La condanna di Dreyfus e la sua degradazione, davanti ad una folla immensa, ebbero una grande copertura mediatica ispirata dallo Stato Maggiore, tutta rivolta ad aumentare l’antisemitismo. Non si poteva ancora parlare di “dreyfusards” o “antidreyfusards” perché nessuno dubitava della sua colpevolezza e numerosi deputati del gruppo antisemita proposero progetti di legge per escludere gli ebrei dalle funzioni pubbliche, addirittura di privarli della cittadinanza.
Travolto dagli eventi dopo essersi illuso che la sua innocenza sarebbe stata riconosciuta, Dreyfus meditò il suicidio ma poi reagì anche grazie al sostegno della moglie che lo incoraggiò ad affrontare la terribile situazione a testa alta. Al momento della deportazione perpetua all’Isola del Diavolo nella Guyana Francese, luogo di prigionia assai più duro della Nuova Caledonia ove la famiglia avrebbe potuto raggiungerlo, scrisse numerose lettere ai conoscenti, fra i quali il Gran Rabbino di Francia cui chiese “appoggio e consolazione”: a tutti promise che avrebbe continuato a battersi per far riconoscere la sua innocenza: “Voglio lottare per il mio onore e per l’onore della nostra famiglia fino all’ultima goccia di sangue”.
Raggiunta l’isola dopo una traversata estenuante di due mesi, rinchiuso in una cella di 4 metri quadrati, indebolito dal clima tropicale, mal nutrito, Dreyfus e il suo caso rischiarono di cadere nell’oblio. La falsa notizia di un suo tentativo di fuga pubblicata ad arte da suo fratello Mathieu per suscitare interesse ebbe il solo risultato di far mettere in catene il prigioniero e di far erigere una palizzata per impedirgli perfino di vedere il mare; ma, pur isolato dal resto del mondo e all’oscuro di quanto avveniva in Francia, continuò a scrivere decine di lettere a tutte le autorità chiedendo la revisione del suo processo, così appassionate e precise da convincere il comandante della prigione, Forzinetti, della sua innocenza.
La famiglia, spinta dal fratello Mathieu, continuò gli sforzi per mantenere vivo l’interesse, ma in un primo tempo riuscì soltanto ad ottenere l’appoggio di un giovane scrittore anarchico, Bernard Lazare: critico, poeta, pubblicista, era un tipico ebreo francese assimilato incurante delle sue origini. Fu soltanto quando, dopo un viaggio ad Amsterdam, cominciò a leggere Spinoza che iniziò ad interessarsi all’ebraismo e quindi si mise a studiare “l’Affaire” sotto il profilo dell’antisemitismo che impediva di giudicare equamente un uomo soltanto perché ebreo. Constatato quanto le accuse contro Dreyfus ricalcassero quelle antiche di crimini rituali, Lazare si dedicò anima e corpo alla ricerca della verità e alla sua riabilitazione. Da solo contro tutti, pubblicò nel 1896 la prima memoria in difesa di Dreyfus, attirandosi gli insulti della stampa ufficiale, ma instillando dubbi che gli guadagnarono l’adesione di numerosi intellettuali, scienziati, scrittori e artisti. La prima versione di quel testo, rifiutata dalla famiglia che la considerava troppo violenta, conteneva la litania di “J’accuse” che poi cederà a Ėmile Zola perché ne sfruttasse la forza retorica. Sotto l’egida di un Comitato di Difesa contro l’antisemitismo, organizzò la lotta ai fomentatori di odio e ai loro giornali, promuovendo e coordinando pubblicazioni di segno opposto. Già nel novembre 1894, Lazare denunciava un clima deleterio: “È poco probabile che vedremo sorgere nuovi ghetti né che, in questo Occidente civilizzato, si richiuderanno degli ebrei in territori speciali come si fa in Russia, ma vediamo ricostituirsi poco a poco un ghetto morale”.
Ben presto, la Francia si trovò divisa fra una minoranza di “dreyfusards” che si scontrava con una maggioranza di “antidreyfusards”, asservita ad uno Stato Maggiore che voleva nascondere le sue menzogne e ai politici che non volevano dispiacere ai loro elettori.
Il vero traditore, il comandante Esterhazy, la cui identità fu scoperta e rivelata all’opinione pubblica da Mathieu Dreyfus alla fine del 1897, fu protetto dallo Stato Maggiore che ne ottenne il proscioglimento nel gennaio 1898. La partita sembrava chiusa.
Su L’Aurore il “J’accuse” di Ėmile Zola
Per rilanciare il dibattito e aprire un nuovo processo, lo scrittore Ėmile Zola pubblicò, il 13 gennaio 1898, sul giornale L’Aurore una lettera aperta al Presidente della Repubblica con il suo celebre “J’accuse…”. Un innocente era stato condannato ingiustamente, umiliato e inviato allo “scoglio dell’ignominia”, lo Stato Maggiore e i ministri avevano preferito la menzogna alla verità che già conoscevano fin dall’estate 1896, quando il colonnello Picquart aveva mostrato loro la prova che il vero colpevole era Esterhazy e Dreyfus innocente; quando questa verità fu resa pubblica da Mathieu Dreyfus, essi fecero assolvere il traditore in un processo-farsa di emblematico, vergognoso servilismo.
L’enorme clamore della lettera aperta di Zola, con più di 300.000 copie del giornale vendute in poche ore, costrinse le autorità a intentargli un processo per diffamazione. Si riapriva, di fronte a un tribunale civile, un caso che la giustizia militare pensava ormai chiuso. Il Paese divenne un vero campo di battaglia ove i due schieramenti si affrontavano a colpi di libelli, manifesti, cartoline, riunioni pubbliche. Zola fu condannato a un anno di reclusione e a una multa, ma fuggì in Inghilterra ove rimase per un anno, rientrando nel giugno 1899 non perché graziato, ma per la prescrizione legale della pena e soprattutto perché il clima politico e il sentimento pubblico erano cambiati.
Nel settembre 1898 emersero le falsificazioni del caso Dreyfus. Queste erano già state scoperte nel 1896 dal colonnello Picquart, subito rimosso dall’incarico, trasferito in Tunisia, poi arrestato per aver violato il segreto militare e falsificato lui stesso i documenti. Ma c’era altro: il suicidio (o l’assassino?) in prigione del tenente colonnello Henry all’indomani della sua confessione di aver scritto un falso documento ed essersene assunto la responsabilità per coprire i suoi capi. Seguì una lunga inchiesta da parte della Cassazione che portò alla revisione del primo procedimento. Dreyfus venne ricondotto in Francia e il processo fu riaperto a Rennes, non a caso nella remota Bretagna. Le udienze si tennero dal 7 agosto al 9 settembre 1899, in un clima da stato d’assedio e al tempo stesso di kermesse per la presenza di giornalisti di ogni parte del mondo che ne fecero l’evento dell’anno.
Anche questo processo fu una farsa nella quale le accuse furono riproposte senza tener conto del decreto della Cassazione. Furono ripetute le stesse menzogne dagli stessi testimoni asserviti allo stato maggiore. All’esito di un dibattito tesissimo nel quale l’avvocato difensore Fernand Labori subì anche un tentativo di assassinio, Dreyfus fu nuovamente condannato, per 5 voti contro 2, a dieci anni di detenzione. Tuttavia, per pretese “circostanze attenuanti” come il suo comportamento passato corretto e rispettabile, l’assenza di prove schiaccianti e soprattutto per il clima incandescente che si era creato, il 21 settembre giunse la grazia del Presidente della Repubblica Loubet.
Il ministro della guerra Gallifet chioserà: “Il caso è chiuso”, ma non per Dreyfus che dichiarò: “Il governo della Repubblica mi rende la libertà ma non l’onore. Continuerò a chiedere la riparazione dell’orribile errore giudiziario di cui sono ancora vittima, voglio che la Francia sappia attraverso un giudizio definitivo che sono innocente. Il mio cuore non avrà pace finché ci sarà un solo Francese che mi ritenga colpevole di un crimine commesso da un altro”. Ma la politica ormai voleva voltar pagina e pacificare il paese. Così nel 1900 venne approvata una proposta di amnistia che pose fine ai vari processi, incluso quello contro Zola e Picquart e consentì ai veri colpevoli di cavarsela senza danni.
La riabilitazione definitiva
La riabilitazione alla fine arrivò nel 1906, preceduta, nel 1903, da un gran discorso di Jean Jaurès che convinse il ministro della Guerra, Louis André, a condurre un’inchiesta personale conclusasi con l’annullamento della sentenza di Rennes e al riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus che fu reintegrato nell’esercito e insignito della Legion d’Honneur. Tuttavia gli attacchi antisemiti ripresero immediatamente e, nel 1908, Dreyfus subì un tentativo di omicidio durante la cerimonia di trasferimento al Pantheon delle ceneri di Zola. Neppure i dispiaceri legali erano finiti: quando tentò di farsi riconoscere i cinque anni di ingiusta prigionia all’Isola del Diavolo nel computo della sua anzianità di servizio, Dreyfus si scontrò con il rifiuto di tutti, dal Presidente del consiglio Clemenceau a Picquart che nel frattempo – riabilitato – era divenuto ministro della Guerra, e di tutti i suoi importanti difensori. Amareggiato per questa ennesima ingiustizia che troncava una carriera destinata a raggiungere i vertici dell’esercito, si dimise nel 1907, ma rientrò in servizio volontariamente a 55 anni nel 1914 per partecipare alla Grande Guerra come ufficiale di artiglieria, non al fronte, ma con incarichi logistici e amministrativi. Tornato definitivamente alla vita civile, visse fino al 1935 rimanendo un simbolo della lotta contro l’antisemitismo e l’ingiustizia.
L’“Affaire Dreyfus” lasciò un segno profondo nella società francese avviando una riflessione sull’antisemitismo che la pervadeva in tutti gli strati fino alla sinistra proletaria sotto la fittizia copertura dell’anticapitalismo; d’altra parte contribuì a rafforzare l’immagine laica della Repubblica che aveva difeso il merito personale di un suo figlio fattosi da sé contro i nostalgici del privilegio e della ragione di Stato tipici dell’Ancien Régime e di consistenti parti della gerarchia cattolica che vedeva nella separazione dello Stato dalla Chiesa una minaccia ai suoi valori e alle sue prerogative. Al contrario, la destra antisemita continuò a considerare l’“Affaire” il simbolo della resa al potere ebraico e ancora il 27 gennaio 1945, Charles Maurras, il feroce deputato antisemita, che qualcuno oggi tenta di riabilitare, dopo aver appreso di essere stato condannato all’indegnità nazionale e all’ergastolo per aver collaborato con i nazisti, esclamò: “È la vendetta di Dreyfus”. Anche nel mondo ebraico francese ed europeo, soprattutto in quello secolarizzato, l’“Affaire” generò sentimenti contrastanti: da un lato il sollievo e la soddisfazione per la vittoria cui aveva contribuito partecipando alla campagna dei “dreyfusards”, dall’altro il timore per l’esteso e pervicace antisemitismo contro il quale l’assimilazione non offriva che una protezione illusoria. Theodor Herzl, che era a Parigi durante il processo del 1894, si convinse ancora di più del progetto di uno Stato ebraico come vera soluzione del problema e due anni dopo pubblicò Der Judenstaat, (Lo Stato degli Ebrei). il testo fondatore del sionismo. Ma col passare degli anni l’inquietudine si attenuò e gli ebrei, in Francia e altrove, tornarono a cullarsi in una fallace sensazione di sicurezza avviandosi verso la prossima tragedia collettiva, nonostante i molti campanelli d’allarme dei quali l’“Affaire Dreyfus” era stato uno dei più evidenti.
Immagini: Alfred Dreyfus a Carpentras (1900); l’Affaire su L’Aurore e Le Petit Journal; la locandina della Mostra al MahJ di Parigi; la riabilitazione di Dreyfus, 21 luglio 1906 (immagini © mahJ).