Red Sea Diving Resort: la storia del film Netflix raccontata da una degli ex agenti del Mossad a Palazzo Marino

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di Nathan Greppi
Molto spesso, nella nostra società, chi si rende davvero utile tende a restare nell’ombra per tanto tempo, e occorre tempo prima che i suoi meriti vengano scoperti: questo è il caso di Yola Reitman, uno degli agenti del Mossad che negli anni ’70 e ’80 aiutarono migliaia di ebrei etiopi a fuggire in Israele, nella cosiddetta Operazione Fratelli, che ha recentemente ispirato il film di Netflix Red Sea Diving Resort. La Reitman è venuta a raccontare la sua storia martedì 11 febbraio a Palazzo Marino, in un incontro moderato dal giornalista Davide Romano e co-organizzato dall’associazione Amici di Israele (ADI).

Dopo i saluti istituzionali la Reitman, affiancata dall’interprete Ofer Zeira, ha iniziato raccontando come è iniziato il suo coinvolgimento nell’operazione: “Tutto è iniziato quando avevo circa 20 anni, e facevo la hostess per la compagnia El Al. Prima di allora facevo l’istruttrice di sub e avevo una mia barca. Un mio amico con cui facevo immersioni, un ex-ufficiale di marina di origini italiane (si chiamava Viterbo) un giorno è sparito senza darmi notizie, finché non è riapparso chiedendomi di lavorare con lui nel Mossad.”

Il motivo per cui l’hanno scelta, ha spiegato, era sia per le sue abilità nelle immersioni, sia perché parlava il tedesco. Infatti, per aiutare gli etiopi a raggiungere Israele attraverso il Mar Rosso, si erano insediati in un villaggio abbandonato sulla costa del Sudan, dove avevano allestito un ritrovo per turisti amanti delle immersioni. E la copertura funzionò, tanto che spesso arrivavano veri turisti nel villaggio, ignari partecipanti di questa operazione.

Per prepararsi all’operazione, ha spiegato, “abbiamo anche imparato a parlare l’arabo sudanese, in modo da comunicare con la gente del posto, poiché se usavano l’arabo che si parla in Israele si sarebbero insospettiti.” Parlando dei sudanesi, ha detto che come donna non si è sentita troppo a disagio tra loro, poiché “allora non c’era il fanatismo di oggi. Inoltre, i capitribù rimanevano stupiti nel vedere una donna guidare una jeep, e mi rispettavano per questo.”

I profughi etiopi venivano portati in Israele attraverso le navi: “Quelle persone non avevano mai visto il mare, ma riuscirono comunque a mantenere la calma e a seguire attentamente le nostre istruzioni.” Questo è andato avanti per alcuni anni, “durante i quali siamo riusciti a far fuggire migliaia di ebrei. Un giorno è arrivato l’ordine di evacuare il villaggio, e senza pensarci 2 volte abbiamo preso le nostre cose e siamo corsi nel deserto, dove c’era un aereo dentro cui siamo entrati con le macchine e siamo volati via.”

(Credits foto: Maurizio Turchet)