di Pietro Baragiola
Domenica 26 gennaio il Museo Ebraico di Bologna inaugurerà la mostra “Oltre i confini del Reich”, un’esposizione storica che ripercorrerà gli eventi avvenuti in Palestina tra il 1917 e il 1948 e l’impatto delle ideologie nazi-fasciste.
La mostra è uno degli eventi organizzati dalla comunità ebraica di Bologna in onore del Giorno della Memoria 2025 e, attraverso una dozzina di pannelli espositori, si soffermerà sugli effetti della decolonizzazione in Medio Oriente, sugli scontri tra arabi ed ebrei e sulla figura del Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, noto collaboratore e sostenitore di Adolf Hitler.
“Ricostruire il quadro storico, contestualizzare i movimenti sociali e politici nell’area palestinese e restituire la storia passata può aiutare a comprendere meglio molti aspetti del presente” afferma la locandina della mostra il cui ingresso sarà libero per tutta la giornata di domenica.
Riportiamo di seguito il programma ufficiale dell’inaugurazione.
Ore 10.30 – Saluti delle autorità in occasione del Giorno della Memoria 2025.
Ore 17.30 – Conversazione sui temi della mostra con i curatori Claudio Vercelli, Università WSUS di Poznan e Scuola Europea di Alta Formazione “Pareto” di Lecco, e Francesca Sofia, Università di Bologna.
Il nazi-fascismo in Medio Oriente
Il nazionalsocialismo e il fascismo hanno caratterizzato la prima metà del Novecento affermandosi come regimi politici e sistemi istituzionali in diverse parti d’Europa.
La nuova esposizione del Museo di Bologna, però, vuole spiegare come l’influenza di questi movimenti si sia estesa ben al di fuori dei confini continentali, raccogliendo innumerevoli consensi e lasciando un’impronta che arriva fino ad oggi.
“Facendo questa analisi non ci si può fermare ad un semplice presupposto ideologico affermando che il nazismo e il fascismo abbiano influito completamente o in nessun modo sul formarsi delle società moderne” ha spiegato il curatore Claudio Vercelli nell’intervista a noi rilasciata. “Il nostro obiettivo è quello di capire quali tracce siano state lasciate nella collettività da questi movimenti e quanto di loro sia rimasto nei gruppi di leadership. È questo l’intento della nostra esposizione: stabilire quanto e cosa senza però dare un giudizio.”
Gli anni della Seconda Guerra Mondiale hanno contribuito a ridisegnare i rapporti di forza tra arabi ed ebrei in Medio Oriente dove, per via della decolonizzazione, la Palestina storica era appena passata da territorio del vecchio Impero ottomano a mandato sotto il controllo britannico.
Protagonista di questo clima di tensione è stato il Gran Muftì Amin al-Husseini, leader degli arabi palestinesi e violento nazista che ha volonterosamente sostenuto Hitler in diversi modi: vivendo a Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale, opponendosi alle trattative con la comunità ebraica e progettando di annientare ogni singolo ebreo nei paesi arabi.
Già nel 1929 il governo britannico gli ha attribuito la responsabilità dell’uccisione di 133 ebrei e del ferimento di altri 239.
Dopo aver eliminato e ridotto al silenzio le forze arabe più moderate, al-Husseini ha fatto si che tedeschi e italiani iniziassero a trasmettere in arabo la loro propaganda ricca di prediche antisemite in modo da diffonderla in nord-Africa e in Medio Oriente. Persino il giornale iracheno al-‘Alām al-‘Arabi in quegli anni ha iniziato a pubblicare estratti della traduzione araba del Mein Kampf con lo scopo di aizzare l’odio antiebraico.
Per consolidare il suo rapporto con i nazisti, l’Iraq ha deciso di chiudere le frontiere agli ebrei europei in fuga e, come risultato, molti di loro sono stati deportati. In pochissimo tempo molti Paesi arabi hanno incrementato esponenzialmente le misure antisemite tra cui: la chiusura dei giornali ebraici, la comparsa di striscioni con la frase “In cielo Dio è sovrano, in terra Hitler” e l’inizio di una lunga serie di uccisioni di ebrei per le strade delle città.
La demonizzazione del popolo ebraico nel mondo islamico è proseguita in maniera incontrollabile fino a sfociare nella creazione di un violento corpo d’assalto di SS musulmane bosniache, le Waffen-SS Handschar. Queste unità sono state istituite con l’approvazione di Hitler dal Muftì di Gerusalemme in collaborazione on Alija Izetbegovic, il leader della gioventù islamica di Sarajevo, e si sono rese responsabili dell’uccisione del 90% della popolazione ebraica dei Balcani.
“Al netto di tutte le polemiche, però, dobbiamo fare attenzione a non schiacciare la storia delle collettività di quel tempo sotto una sola figura come quella del Gran Muftì, che certamente ha avuto un grande eco ma non era rappresentativa dell’intera società” ha spiegato Vercelli. “’Oltre i confini del Reich’ vuole aprire un piano di riflessione mostrando al pubblico italiano tutti i dati e gli elementi per poter discutere sull’argomento con una base storicamente fondata.”
La mostra è stata un lavoro di 6 mesi, durante i quali Claudio Vercelli e Francesca Sofia hanno confrontato tra loro il materiale che ciascuno dei due aveva già raccolto sull’argomento, in modo da presentarne una visione più accurata possibile al pubblico italiano.
“In un clima di tensione come il nostro è importante ricordare che questo non è un lavoro di provocazione ma storiografico” ha concluso Vercelli. “L’obiettivo del Museo Ebraico di Bologna e sì la tutela del patrimonio culturale ebraico ma anche quello di divulgarlo in maniera corretta e in Italia ci rendiamo conto di scontare un ritardo non da poco su certi temi. C’è ancora molto su cui lavorare.”
“Oltre i confini del Reich” resterà aperta al pubblico fino al 30 marzo 2025.
Domenica 26 gennaio 2025 – MEB ore 10,30
XXV Giornata della Memoria
Saluto di apertura – Guido Ottolenghi (Presidente, Museo Ebraico di Bologna) Inaugurazione della mostra
Oltre i confini del Reich – L’ombra del nazismo e i fantasmi dell’antisemitismo nel
Medio Oriente
Autorità, cittadini, amici, apriamo oggi le iniziative per la XXV Giornata della Memoria ricordando che ricorrono 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Ormai da molti anni noi del Museo, insieme alla Comunità Ebraica, alle Autorità e a molti cittadini sensibili, ci ritroviamo per proporre iniziative che aiutino il mantenimento della memoria e la comprensione dei meccanismi che possono portare alla persecuzione e alla perdita dei valori fondamentali della civile convivenza. Quest’anno inauguriamo una mostra dedicata al ruolo nella Shoah di una delle figure di maggior spicco del nazionalismo arabo degli anni Trenta, Amin Al Hussaini, nominato Gran Muftì di Gerusalemme (cioè capo spirituale e politico) dagli inglesi nel 1921. Al Hussaini partecipò alla rivolta contro gli inglesi del 1936, e all’organizzazione del colpo di stato filonazista a Baghdad del 1941, culminato nel pogrom contro gli ebrei. Fuggì poi a Roma con l’aiuto di Mussolini e di lì a Berlino. Egli era fiducioso che la Seconda guerra mondiale avrebbe portato alla vittoria dell’Asse (Asse era il nome dell’alleanza tra Germania nazista, Italia fascista e Giappone imperiale), credeva nel totalitarismo e valutava che anche per il Medio Oriente la soluzione del “problema ebraico” fosse la eliminazione degli ebrei. Si pose perciò al servizio di Hitler e Himmler reclutando tre divisioni di volontari musulmani, due nelle SS e una nell’esercito nazista, guidò inoltre i servizi di propaganda nazisti in lingua araba da Berlino e soprattutto si accreditò come leader capace di guidare le masse arabe una volta che le truppe naziste avessero raggiunto il Medio Oriente, cosa che, come sappiamo, per fortuna non successe. Si tratta dunque di un importante tassello della storia della Shoah e della rete di alleanze di Hitler nel disegno di sterminio degli ebrei, che contiene inoltre un profondo lascito culturale e politico nei due messaggi che più caratterizzano l’insegnamento del Gran Muftì: (i) il massimalismo, cioè la posizione che nessuno stato ebraico può esistere in Medio Oriente, e che a tale obiettivo si può sempre sacrificare anche qualunque soluzione di stato palestinese, e (ii) la deumanizzazione degli ebrei, cioè l’idea che essendo essi subumani, malvagi e complottisti, l’eliminazione degli ebrei (uomini, donne e bambini indistintamente) sia un obiettivo legittimo.
Nel 2020 il MEB produsse, per la Giornata della Memoria, una mostra sulla Brigata Ebraica, in quanto anch’essa era un importante tassello della nostra storia locale. Infatti la Brigata, quale parte della VIII Armata britannica, partecipò alla liberazione di vaste aree della Romagna nel 1945. Notammo allora con amarezza come essa venga da qualche tempo attaccata durante le celebrazioni della Liberazione. In quella occasione parlammo anche per la prima volta della speculare vicenda del Gran Muftì e delle sue divisioni inquadrate nelle SS naziste, riproponendoci di approfondire l’argomento. ¿ È giusto porci oggi questo tema, pur così rilevante ai fini della memoria della persecuzione degli ebrei durante il nazifascismo, quando un nuovo conflitto in Medio Oriente ha portato ancora una volta gravi lutti in quelle aree e soprattutto infiamma gli animi anche da noi? Non credo che basti dire che la materia è parte integrante della storia della Shoah, o che l’attenzione del Museo alla vicenda del Gran Muftì era sorta ben prima degli eventi recenti, e ritengo mio dovere fornire una riposta più ampia a questa domanda.
Per farlo comincio dal ricordare cos’è a Giornata della Memoria: pochi giorni fa (il 14 gennaio 2025) è mancato il senatore Furio Colombo, che fu il proponente della legge [211/2000] che ha istituito [per il 27 gennaio] la Giornata della Memoria “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali […] in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo […] affinché simili eventi non possano mai più accadere”. Anche l’ONU [con risoluzione 60/7 dell’1 novembre 2005] ha fissato nel medesimo giorno la Giornata della Memoria dell’Olocausto. Nel richiamare la luminosa figura del Sen. Colombo, vorrei informarvi che quest’anno alcune istituzioni ebraiche per disperazione non partecipano agli eventi della Giornata, e vi segnalo che il ricordo dei temi legati alla Shoah non fu concepito a favore degli ebrei, che se la ricordano benissimo senza bisogno di alcuna legge, ma fu ideato come un obbligo per scuole e istituzioni al fine, come dice la legge stessa, di ricercare nella storia elementi di conoscenza e di pensiero che ci aiutino a vigilare sulle dinamiche della società e ad evitare che si ripresentino discriminazioni e limitazioni delle libertà dei cittadini su basi arbitrarie come quelle che portarono alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei in Europa. A tal fine abbiamo detto altre volte due cose:
La prima è che, quando le difficoltà si addensano (nella società, nella famiglia, nella vita personale), l’istinto ci porta a dare la colpa a un nemico, a un complotto: non è che non esistano nemici o complotti, ma quando spieghiamo la realtà e i nostri limiti dando la colpa agli altri, abbiamo già rinunciato alla nostra libertà e alla possibilità di migliorarci. Per questo motivo l’antisemitismo non è solo un fallimento della morale e della ragione, è un termometro che segnala che la società, quando ne è pervasa, sta per farsi del male.
La seconda idea da ricordare è che questo male si radica in un contesto di indifferenza: ciascuno di noi ha altro da fare, interessi da curare, urgenze da sbrigare e i problemi della società, o quelli del vicino, non sono nostri problemi. Nel frattempo, i malvagi testano i limiti, scrutano quegli atti simbolici delle istituzioni che a loro parere li legittimano: i primi squadristi fascisti o le camicie brune naziste temevano una reazione della società civile e delle autorità, ma trovarono ben poca resistenza e spesso ebbero accoglienza. Quando questo si verifica l’oscurità si diffonde.
Al MEB abbiamo anche dedicato tempo a riflettere [nel 2019] sul paradosso della Memoria, e cioè che il successo nel risvegliare la sensibilità agli orrori della Shoah ha, da un lato, talvolta favorito protagonismi eccessivi, ma soprattutto ha generato una distorsione, e cioè che la patente di “male assoluto” fa gola ad altre cause. Se qualcuno vuole dire che la tragedia di qualche popolo o le ingiustizie subite da qualche gruppo richiedono l’attenzione dell’opinione pubblica, ha a disposizione uno strumento propagandistico già confezionato, e cioè dire che ciò è simile all’olocausto. Si useranno dunque termini come “lager, genocidio, deportazione, sopravvissuti” e simili artifici retorici, così attirando l’attenzione su di sé e banalizzando la Shoah allo stesso tempo. Non vogliamo qui aprire una discussione sulla definizione di tali parole, ma invitare tutti voi a riflettere sull’importanza del lavoro onesto nell’usarle. Quando Putin nel 2022 diceva di aver invaso l’Ucraina per sconfiggere il nazismo, abbiamo visto un esempio di questo uso distorto delle parole. A Gaza secondo la fonte dello stesso governo di Gaza (cioè, una fonte di parte) vi sono stati 47.000 morti in 15 mesi di conflitto (ivi inclusi i combattenti in armi) e la popolazione totale, nel frattempo, è comunque cresciuta: se ciò viene definito genocidio, allo stesso modo dello sterminio di milioni di persone appartenenti a minoranze non in armi durante la Shoah, siamo di fronte a una trasformazione del significato delle parole e a un fallimento dello strumento della Memoria. Senza voler intervenire nella discussione sulle tragedie e le colpe in questi o in altri conflitti armati, ci pare evidente che una definizione troppo ampia dei termini nazismo o genocidio ne svuoterà prima o poi il significato con un danno alla nostra coscienza collettiva. È questo il paradosso di appiattirsi sul presente, di usare la Shoah non come fonte di insegnamento, ma come clava per ogni causa corrente.
Siamo coscienti che il vento della sensibilità a questi temi cambia, e che oggi vi è un diffuso desiderio di usare le categorie della Shoah per fare politica e un contemporaneo fastidio nel sentire che la Shoah va studiata e conosciuta, per ricavarne insegnamenti radicati nei fatti e non nelle piazze. Ciononostante, nel piccolo della nostra istituzione sentiamo il dovere, anche se il vento cambia, di cercare argomenti solidi e ben documentati che suscitino, anche in un clima dialettico, la voglia di conoscere e approfondire, di affrontare i nodi culturali che l’attualità offusca, mentre la storia invece li svela. Come alcuni di voi ricorderanno dopo la fine della Seconda guerra mondiale un piccolo gruppo di intellettuali cristiani già attivi nella amicizia ebraico cristiana, ritennero che vi fosse un nodo culturale che non era più rimandabile, quello dell’antigiudaismo cristiano, e decisero di affrontarlo quando la Guerra non era nemmeno finita. Il loro lavoro paziente, difficile, delicato, che vide scontri e tempi lunghi, portò alla pubblicazione del libro Gesù e Israele di Jules Isaac nel 1948, alla presentazione delle tesi dell’amicizia ebraico cristiana a Pio XII nel 1949, all’incontro con Giovanni XXIII nel 1960 e alla dichiarazione Nostra Aetate nel 1964 che pose fine a un millenario pregiudizio antiebraico nella Chiesa che ha influenzato le peggiori derive politiche (di cui pure ci occuperemo in due conferenze al MEB sull’antisemitismo francese il 4 e il 27 febbraio). Tale percorso di una cultura coraggiosa che affronta le idee che impediscono la convivenza è forse la più alta espressione della cultura e dell’amore per la pace. Essa partì da poche persone, viste con sospetto in entrambi i campi, lavorò con pazienza per vent’anni, e non solo portò un frutto prezioso per il dialogo, ma liberò il cristianesimo, e direi anche l’ebraismo, da preconcetti che ne bloccavano l’adattamento ai tempi e il dispiego delle proprie potenzialità morali. Questo e altri esempi dimostrano che la pace non viene dalla sottomissione o dall’evitare argomenti spinosi, ma al contrario dal sollevarli, discuterli anche aspramente, ma sulla base di fatti e razionalità.
Perciò abbiamo deciso che questa mostra, già da tempo pensata e ben radicata nel tema della storia del nazifascismo, non venisse più rimandata: ogni Paese e cultura che ha partecipato alla Shoah, magari poi pagando un prezzo per tale scelta, ha potuto progredire solo facendo i conti col proprio passato, e questo vale anche per quei settori del mondo islamico dove Hitler è ancora una figura positiva, i suoi scritti vengono letti e diffusi, e dove è radicata l’idea che il conflitto con Israele si sciolga solo con una “soluzione finale”, e il massimalismo (cioè l’idea del Gran Muftì che è meglio nessuna pace che una pace che accetti Israele) è condiviso. Chi, se non la cultura, potrà affrontare questi nodi? E se non si affrontano ci resta solo un infinito ciclo di guerre in cui per ora in occidente tifiamo dagli spalti, ma in cui prima o poi saremo coinvolti. Guerre anche culturali, dove una parte invoca il diritto a una terra “dal fiume al mare”, cioè, cancellando Israele, e l’altra ha buon gioco a dire, davanti a una eterna minaccia esistenziale: “prima ci difendiamo con ogni mezzo, poi vediamo”. Se questa mostra, anche attraverso critiche, porterà a una pur piccola occasione di riflessione e di dibattito magari attirando l’attenzione di pensatori islamici interessati a offrire un contributo di pensiero, essa avrà realizzato in modo mirabile la missione della Giornata della Memoria: ricordare aspetti della Shoah anche al fine di ricavarne riflessioni per il futuro.
Perché il ricordo e la comprensione dei meccanismi che hanno portato alla Shoah hanno senso affinché ci aiutino a vigilare sulle dinamiche della società e ad evitare che essi si ripresentino. Tuttavia, va fatto un uso fattuale e pacato della memoria, e un uso preciso delle parole. Io credo che la conoscenza possa stimolare le giuste riflessioni nelle teste e nei cuori di chi ascolta e si informa, come voi, e che il compito culturale delle Istituzioni, tra cui il MEB sia di fornire in modo accessibile e rigoroso gli strumenti di pensiero. Quando le istituzioni offrono un “pensiero” preconfezionato e non gli strumenti per l’esercizio libero delle coscienze e delle intelligenze c’è qualcosa che non va. Quando sentiamo paragonare cose non paragonabili o usare a sproposito le parole, dobbiamo allertarci. Io spero che anche quest’anno il lavoro del Museo, sia all’altezza del compito, e spero che anche voi che siete presenti qui oggi vogliate raccogliere la sfida di approfondire quei nodi culturali che rendono impossibile la convivenza e che vogliate sostenere le occasioni di confronto, quale strumento di dialogo e di pace. Grazie della vostra attenzione.