Da sinistra, Lucio Caracciolo, direttore Limes, e lo studioso Sergio Della Pergola

Il futuro del Medio Oriente nell’era Biden: dialogo con Lucio Caracciolo e Sergio Della Pergola

Eventi

di Francesco Paolo La Bionda
Stati Uniti alle prese con la disunione interna, sempre meno attivi nel quadro regionale. Israele sempre più attivo nella normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi. Palestinesi troppo rigidi e divisi per approfittare del momento. L’Iran in crisi ma ancora capace di costituire un pericolo. È il futuro del Medio Oriente che hanno dipinto due eminenti studiosi, Lucio Caracciolo, Direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, e Sergio Della Pergola, Emerito alla Hebrew University of Jerusalem, nel corso di un evento virtuale, significativamente titolato “La sfera di Cristallo: Israele e Medio Oriente”.

L’incontro, organizzato lo scorso 20 dicembre dall’Associazione Italia-Israele e da Lech Lechà insieme alla Comunità Ebraica di Milano e a Limes, è moderato da Davide Assael, presidente di Lech Lechà, e si è aperto con i saluti di Monsignor Pier Francesco Fumagalli, Presidente dell’associazione Italia-Israele di Milano, e di Milo Hasbani, Presidente della Comunità Ebraica di Milano, e con un ricordo di Nedo Fiano.

Sugli Accordi di Abramo Biden non tornerà indietro

 Il punto di partenza sono stati gli storici Accordi di Abramo, con cui qualche mese fa Israele ha normalizzato le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, e la loro prospettiva sotto l’amministrazione del presidente eletto.

 Gli Accordi non sono stati una novità imprevedibile: sono la formalizzazione di rapporti già profondi e pragmatici, ma non visibili, esistenti già da anni tra le oligarchie arabe e Israele. I paesi arabi, almeno da vent’anni, hanno rinunciato a immolarsi alla causa palestinese, che è diventata ormai un problema umanitario più che geopolitico”, ha premesso Caracciolo, che ha poi analizzato il ruolo svolto dagli Stati Uniti nel contesto della relazione con Israele: “Trump, e suo genero Kushner, hanno giocato un ruolo nella stipula ma lo ha fatto anche la sensazione percepita da tutti i paesi mediorientali, più a ragione che a torto, che la tendenza degli Stati Uniti sia il disimpegno dalla regione. Da Bush Jr. in poi gli americani hanno fatto capire di avere altre priorità globali, in primis impedire il soprasso cinese.

Esiste un rapporto strutturale tra Stati Uniti e Israele, in qualità di due paesi che hanno stabilito una consanguineità che prescinde dagli schieramenti politici, dalle ideologie e anche dalla religione. Questo perché nella visione americana Israele riveste un ruolo speciale nel disegno missionario americano. È più di un’alleanza, anche se significa che non ci siano problemi tra le due nazioni e tra gli ebrei americani e quelli israeliani.  Il rapporto privilegiato dal punto di vista geopolitico mette Israele in condizione di superiorità e permette di stringere rapporti con paesi che fino a ieri non li avevano voluti stabilire, temendo la reazione della piazza”.

Della Pergola ha rimarcato anch’esso l’importanza del disimpegno americano in corso nella regione, prevedendo che la grave divisione sociale emersa dalle ultime elezioni distrarrà ulteriormente Biden dalla politica estera mediorientale: “Questi temi non sono all’ordine del giorno della nuova amministrazione americana. Con Biden si torna a un’America alle prese con gravi fratture interne e anche col disfacimento morale; la grande coesione nazionale è molto ridotta e quello che il presidente eletto sta facendo con la nuova amministrazione è ricreare una grande coalizione. Questo può quindi portare a investimenti ridotti in politica estera e in particolare sul Medio Oriente.  Quindi Biden non creerà rivoluzioni ma cercherà di cogliere i dividendi di quanto Trump ha ottenuto, col coinvolgimento di altri paesi dall’Oman all’Indonesia”.

Il demografo italo-israeliano ha poi posto l’accento sulle posizioni filo-repubblicane del premier israeliano: “L’amministrazione israeliana con Netanyahu ha assunto una posizione non più bipartitica, come era avvenuto per decine di anni, non più rivolta quindi all’alleanza tradizionale con gli Stati Uniti ma ostentatamente a favore del partito repubblicano. Netanyahu e il suo staff indossano sempre cravatte rosse simbolo del Partito Repubblicano. Ora dovrà ricucire il rapporto con i democratici e questo comporterà anche cambi di personale diplomatico a Washington. L’ambasciatore israeliano ha peraltro finito il suo mandato e si dice che il candidato alla successione potrebbe essere Yossi Coehn, l’attuale capo del Mossad, che avrebbe ancora cinque mesi alla guida dei servizi ma il cui successore, ancora ignoto, è già stato nominato da Netanyahu, senza aver peraltro consultato né il Vice Primo Ministro Gantz né il Ministro degli Esteri Ashkenazi”.

L’oltranzismo e il settarismo palestinese non porteranno a niente

Sulla mancata adesione dei movimenti palestinesi prima all’Accordo del Secolo, proposto da Trump a gennaio, e poi agli Accordi di Abramo il Direttore di Limes ha puntato il dito sulla disunione interna, che preclude il raggiungimento di qualsiasi soluzione politica: “Un accordo coi palestinesi presuppone l’esistenza di un soggetto palestinese, che non riesco a vedere e che dubito esistesse compiutamente anche prima. La personalità strabordante di Arafat ha incarnato a lungo la causa palestinese e ha presupposto l’esistenza di un tale soggetto. Non c’è una forza aggregante e legittimata capace di poter firmare un accordo e di esserne garante. Dal punto di vista israeliano è un dato oggettivo e che fa anche molto comodo. Il problema palestinese è un problema sostanzialmente umanitario oggi, e questo squalifica la possibilità di una vera soluzione”.

Della Pergola ha rimarcato le colpe dei dirigenti palestinesi e ha poi sottolineato come anche gli Accordi di Abramo contengano termini a loro favorevoli: “La classe dirigente palestinese ancora una volta ha perso una buona occasione per non perdere una buona occasione. Il piano di Trump dava alla Palestina una cosa che nessuno le aveva mai dato prima: il riconoscimento, sia pure in maniera non del tutto esplicita, del principio di due Stati per due popoli. Il fatto che negli Accordi di Abramo sia stato estorto a Netanyahu la rinuncia all’annessione dei Territori è un punto a favore dei palestinesi. Invece di cogliere l’opportunità e cominciare a negoziare sui vantaggi che sarebbe facile ottenere, si sono chiusi in un rifiuto totale a priori”.

L’accademico ha poi suggerito che la divisione tra Fatah e Hamas sia così profonda da poter essere risolta solo formalizzandola: “Gaza e la Cisgiordania sono due Stati separati, i membri di Fatah non possono neanche mettere piede a Gaza. La mia teoria, che però pochissimi condividono, è che la vera soluzione siano due stati palestinesi separati”.

L’Iran non va sottovalutato, anche quando è in difficoltà

I due studiosi sono stati poi concordi nel rimarcare la consistenza e la resilienza dell’Iran nonostante i recenti sviluppi geopolitici a suo sfavore.

“L’Iran, a differenza degli attori arabi, ha una consistenza statuale molto radicata. Ha subito dei colpi seri negli ultimi tempi, come la situazione in Iraq, dove americani e altri attori lavorano per impedire una stabilizzazione del paese in qualità di satellite iraniano – cosa che peraltro non avverrà, l’Iraq non esiste più e non sarà più ricostruito così com’era. L’Iran sta però accelerando il programma nucleare, usandolo come arma di ricatto verso gli Stati Uniti e l’Europa. Rivitalizzare il vecchio accordo è un’opzione che non funziona: se ci saranno negoziati seri non si può immaginare uno status quo ante ma qualcosa di diverso, che difficilmente andrà a vantaggio di Teheran. La Cina è l’altra carta che l’Iran può giocare: è il paese con cui sta stabilendo rapporti sempre più stretti, è fondamentale per la BRI. Teheran può anche fare leva sulle minoranze sciite presenti in molti paesi arabi contro di loro, e la sensazione è che se dovesse colpire obiettivi strategici locali non ci sarebbe una reazione americana” ha spiegato Caracciolo.

“Gli Accordi di Vienna sul nucleare sono stati molto criticati in Israele. L’Iran è un paese molto sviluppato, anche più della Turchia, è una società molto forte aldilà del regime e che riesce a sfornare élite competenti. Israele ha dedicato enormi energie a contrastarlo. Non mi pare ci sia una soluzione. Le telecamere satellitari hanno scoperto la costruzione di un nuovo impianto nucleare iraniano. Bisogna cercare in parte di contenere i danni, anche tramite l’uso dell’intelligence e la creazione di una rete di alleanze e la pressione sull’amministrazione americana, che non si è ancora espressa chiaramente. L’ipotesi di un attacco aereo preventivo israeliano contro l’Iran, emersa qualche anno fa, ha ricevuto parere negativo dai militari e dai servizi segreti. In Israele le forze equilibrate e con cognizione di causa sono proprio l’esercito, l’aviazione e l’intelligence, mentre a volte i politici non sono lungimiranti” ha testimoniato Della Pergola.

Le domande del nutrito pubblico che ha seguito la diretta hanno fatto spaziare poi la conversazione dall’interventismo turco e russo in Medio Oriente al rapporto difficile tra l’élite accademica e la classe politica in Israele.