La post-memoria. Viaggio nella terza generazione dell’Olocausto.
Ovvero, come mio nonno mi fece sentire, capire, provare cosa è stato Auschwitz e come i nipoti della Shoah hanno introiettato e raccontano oggi quell’evento.
«Tutte le volte che penso alle persecuzioni, al periodo nazifascista, l’associazione immediata è a mia madre, a mia mamma e alla bambina che in realtà…sono io… Ogni volta che raccontava, lei piangeva… Ho la sensazione che da quando sono nata lei raccontasse, al punto che per me c’è una identificazione totale con quella bambina, cioè con mia madre, che poi all’epoca, essendo nel 1940, era piccolissima, per cui anche la sua memoria è sicuramente indiretta, anche se sostiene che lei si ricorda tutto».
A parlare così è Raffaella di Castro, docente di Filosofia all’Università della Calabria e autrice del libro Testimoni del non-provato, ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione, (Carocci, 26 Euro, 325 pagine), un saggio denso e complesso che è anche una bella raccolta di testimonianze e insieme una riflessione privata dellautrice sulla propria vicenda famigliare, senz’altro una delle opere più interessanti degli ultimi tempi.
Il libro nasce grazie all’UCEI che ha voluto sostenere questa ricerca nonchè la sua pubblicazione grazie al Fondo Internazionale Assistenza alle Vittime delle Persecuzioni Naziste in stato di bisogno (legge 249/2000). «Ho scritto questo libro anche per ritrovare i miei compagni di terza generazione e ascoltare come il racconto dei nonni fosse entrato dentro di loro», dice di Castro.
Post-memoria, quindi: non più solo quella dei figli ma quella dei nipoti. Memorie della persecuzione nazifascista trasmessa dalla viva voce dei nonni o dei genitori all’epoca bambini. Per costruire così un’altra forma di racconto della memoria, situata tra i due estremi della memoria-trauma (indicibile e sempre meno rappresentabile man mano che ci si allontana nel tempo dall’evento) e la memoria-dovere pubblica, sempre più retorica, astratta e ripetitiva, scrive Raffaella di Castro, la memoria-museo, ossia l’obbligo di non dimenticare che diventa un diktat pietrificato nel rito, raccontato a volte con parole trite e logorate dall’uso, con espressioni fossilizzate nei luoghi comuni.
In questo senso, i racconti dei nipoti possono essere ancora vibranti e capaci di ridare all’imperativo ebraico Zachor (ricorda) nuovo significato e forza.
«I miei amici mi dicono che sono fossilizzata perché quando parlo dei campi di concentramento dico NOI. Mi dicono: sono passati 50 anni e dici NOI? Devi dire i MIEI, i miei bisnonni, perché per te erano bisnonni. Tu non devi dire più NOI. Ma tutti a casa diciamo NOI, anche mia sorella, NOI perchè ci riguarda ancora», dice Deborah, una nipote-testimone-del-non-provato, in un’intervista tratta dal libro di Raffaella di Castro. «Certe esperienze le ho fatte sulla mia pelle. Tutto viaggia dentro di me anche se non c’ero», dice Ester, figlia di una madre reduce da Auschwitz e che all’epoca era bambina. «Mia nonna amava molto raccontare, è da lei che ho vissuto e saputo le vicende familiari… ho passato ore e ore e ore ad ascoltare lei che raccontava… come si era salvata con suo marito, cioè mio nonno e come aveva salvato… mia madre neonata e i fratelli di mia madre», dice Giorgio, sempre in una delle interviste del libro.
Quello che colpisce è proprio questo: come la memoria del non-vissuto abbia lavorato sui sogni, sulla fantasia, sulla sensibilità delle toledot, delle generazioni, in mille modi diversi ma sempre in modo potente e profondo, spingendo i nipoti a discendere nella cripta abitata dai fantasmi appartenuti ai nonni e a guardare nella scatola di ferro, ossessionati da un passato che non hanno vissuto. Le memorie di terza generazione, dice Raffaella di Castro, sono contraddistinte dal come se, memorie relative a storie di persecuzione e sterminio, non vissute e tuttavia percepite come se l’avessi vissuto io direttamente. «Ce lo insegna anche l’Haggadah di Pesach, in cui si ricorda l’uscita dall’Egitto come se noi stessi fossimo stati schiavi: ma l’empatia non è per l’ebraismo un fine in sè, un’esperienza catartica; è piuttosto uno strumento di presa di coscienza dei rischi di schiavitù sempre presenti e di richiamo alla responsabilità individuale nei confronti della libertà di tutti», scrive l’autrice.
Post-Memoria si diceva: un termine coniato dalla studiosa Marianne Hirsch per descrivere le esperienze di figli e nipoti di sopravvissuti in relazione ai traumi dei loro parenti, esperienze che essi ricordano solo come le storie e le immagini in cui sono cresciuti, ma che sono così potenti e monumentali da costituire memorie in senso proprio. «La post-memoria è caratteristica dell’esperienza di chi è cresciuto avvolto nei racconti che hanno preceduto la sua nascita», scrive la Hirsch nel lirbo Projected Memory… Perché i racconti dei nipoti non stabiliscono soltanto l’identità dei sopravvissuti ma anche quella dei discendenti. Specie dei discendenti dei milioni di morti che non ebbero sepoltura.
E del resto la trasmissione del ricordo non avviene forse riscattando le storie che il tempo smarrisce? Ce lo dicono anche i numerosi romanzi, i racconti e i saggi scritti dai nipoti, la letteratura di terza generazione, che non solo è ormai copiosa, ma sempre più spesso produce autentici capolavori. È appunto la letteratura della Post Memoria, in cui la memoria reale e il ricordo degli eventi si mescolano a una narrazione e a una scrittura di qualità. È stato, l’anno scorso, il caso de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza), storia biografica dell’autore stesso che tra i 30 e i 40 anni decide di fare il giro dei 5 continenti per ricostruire un pezzo di storia della propria famiglia, quella di uno zio e delle sue quattro splendide figlie, che sarebbero state oggi sue cugine, seguirne le tracce oscure e dimenticate, ricostruendo ossessivamente la loro vita di prima dell’ultimo fatale viaggio.
Del resto Mendelsshon non ne fa mistero e dice: tutti si occupano dei sopravvissuti, tutti raccontano le storie degli scampati; ma che ne è degli scomparsi, delle loro vite, dei loro amori, del suono delle loro risate? Un viaggio nell’infanzia, nella loro infanzia e nella propria infanzia.
Un pellegrinaggio della memoria tra fiction e realtà quello di Mendelsohn che è quasi speculare al primo e forse più celebre tra i romanzi scritti dai nipoti, quello di Jonathan Safran Foer e del suo Ogni cosa è illuminata, anche lì un percorso all’indietro che come un filo d’Arianna tesse a ritroso una vicenda a dir poco irrintracciabile, che porta il nipote a rivivere la storia dei nonni attraverso la raccolta maniacale di oggetti-feticcio.
Anche qui un viaggio al termine della notte dell’identità, alla ricerca di una cittadina-fantasma di cui si è persa persino la memoria del nome, Tracimbrod, cancellata come non fosse mai esistita, dissolta nell’immensità della pianura Ucraina.
E che dire poi dell’incredibile Risvegli nel buio dell’australiana Shira Nayman (Einaudi), quattro lunghi racconti perfetti e indimenticabili, che trafiggono l’anima come se chi racconta non fosse nipote ma essa stessa protagonista? «Le colpe dei padri ricadono sui figli. Ma c’è dell’altro. Vede, anche le sofferenze dei padri ricadono sui figli», e sui figli dei loro figli, scrive la Nayman per dirci che la riscoperta di sé non può che passare per i sentieri tortuosi e inattesi della memoria.
E c’è ancora litaliana Eva Schwarzwald, che con La prigione rosa (Guerini e Associati, in libreria dal 30 gennaio 2009), manda oggi in stampa un mémoir toccante, che attraversa quasi un secolo di storia italiana. «La memoria si è stratificata nelle mie emozioni, nel mio corpo, direi a mia insaputa. In casa mia regnava il silenzio, nessuno parlava di Shoah: eppure la famiglia di mio padre, ebrei polacchi e austriaci, subì le persecuzioni e mio padre riuscì a scappare da Dachau», dice Eva Schwarzwald e aggiunge: «non se ne è mai parlato in casa finché lui era in vita, era tabù, ed ora non cè più nessuno a raccontare. Questa barriera, questo silenzio sul passato di mio padre, si è fissato nel mio corpo come una pesante corazza, per coprire emozioni che avrebbero potuto fluire altrimenti. Una cappa pesante per la bambina che ero; il dover essere leale verso qualcosa che non conosci ma è intorno a te, nellaria, nel nutrimento che un nucleo familiare solitamente mette per tenere insieme i suoi membri. Un dolore non spiegato, una ferita muta e non verbalizzata, creano un mondo interiore velato, uno squilibrio emotivo. Questo respiravo in famiglia. Penso che il libro mi abbia aiutato e buttar via un po di dolore».
Fiona Diwan
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