Rav Alfonso Arbib

Ebrei in Italia, tra identità e assimilazione

Eventi

di Fiona Diwan

Ghiur katan e matrimoni misti. Il percorso di conversione e i rapporti con il Rabbinato israeliano. Alla ricerca delle diverse sfumature di ortodossia con cui disegnare la propria appartenenza e il modo di vivere l’ebraicità. Tra Halachà e richiamo identitario, parla il Rabbino capo e Presidente dell’ARI, Alfonso Arbib

 

Rav Alfonso Arbib
Rav Alfonso Arbib

La storia di Ruth la moabita ne è l’esempio più puro e disinteressato, a tal punto da diventare un libro a sé, letto ogni anno a Shavuot. “Il tuo popolo è il mio, il tuo Dio è il mio…”, dichiara Ruth, la più

celebre convertita della storia ebraica, scegliendo così – duplicemente e in una botta sola -, l’integrazione religiosa e quella nazionale, le mitzvòt e l’identità storica d’Israele. Ruth, simbolo di ogni conversione sincera e davvero interiorizzata, Ruth diventerà il paradigma dell’assenza di preclusione dell’ebraismo nei confronti di ogni gher. A tal punto che da Ruth si fa discendere David Hamèlekh e il Mashiach.
Una storia molto attuale quella di Ruth. Nascondersi che l’ebraismo italiano rischi oggi di frammentarsi sulla questione del ghiur sarebbe un errore. Un tema molto caldo, una richiesta di confronto sempre più forte, in una riflessione tutta interna all’Italia ebraica, tra Halakhà e richiamo identitario. Un dibattito che è lo specchio di un ebraismo italiano polimorfo e sfaccettato, scisso tra osservanza e secolarismo, tra rapporto con Israele e impegno per la memoria, tra lotta contro l’antisemitismo e l’antisionismo, fino ai mille modi in cui ciascuno di noi può dirsi ebreo. Come è possibile quindi andare oltre le polemiche e le facili radicalizzazioni, oltre le scelte antinomiche e paradossali di un “ebraismo senza ebrei” o di “ebrei senza ebraismo”? In un’Italia ebraica in forte flessione numerica (25 mila iscritti), è ancora possibile tracciare una via italiana all’identità ebraica? In quali termini, a proposito del ghiur, è possibile parlare di atteggiamento di apertura o chiusura, di inclusività o esclusività? Lo abbiamo chiesto al Rabbino Capo di Milano e neo-eletto Presidente dell’ARI, Assemblea Rabbinica Italiana, rav Alfonso Arbib.

All’indomani delle elezioni Uce,i avvenute lo scorso giugno, è tornato in pole position il dibattito sul ghiur, un tema molto sentito, con la richiesta di linee guida più chiare e definite.
A proposito del ghiur c’è un equivoco di fondo e spiego che cosa intendo. Il ghiur è previsto da sempre nella tradizione ebraica, convertirsi è possibile e dal racconto di Ruth in avanti lo si sa. Ma oggi, per alcuni, il ghiur sembra essere diventato una risposta a tutto, la soluzione dei problemi demografici di una Comunità. Non è così. Il ghiur resta una questione individuale e del singolo e richiede una risposta al singolare che non può essere né collettiva né politica. Non esistono risposte standardizzate e pronte.
Sono d’accordo con Rav Giuseppe Laras quando afferma che negli ultimi decenni sono stati fatti alcune centinaia di ghiurim in Italia; e che nonostante questo alto numero di conversioni non si possa certo dire che i problemi delle Comunità italiane siano cambiati né stati risolti.
Ma c’è anche un secondo equivoco. Si fa molta confusione tra Stato d’Israele e Comunità Ebraiche. Ricordiamoci che la situazione di uno Stato è differente da quella di una comunità diasporica. Come diceva il pensatore Yeshaiahu Leibovitz, in Israele la tua identità israeliana è la tua stessa carta d’identità e non c’è evidente né urgente la necessità di mantenere la propria identità. Non così in una Comunità diasporica dove l’adesione è volontaria, e ne fai parte solo se tu lo vuoi. Personalmente penso che anche in Israele ci sia un forte problema identitario. Nella Diaspora però questo problema è ineludibile. Chiediamocelo apertamente: che cosa tiene viva una Comunità? Cosa la fa stare in piedi? Ebbene, tre sono gli elementi fondanti: l’educazione ebraica, il Tempio, la ghemilut chassadim, ovvero l’occuparsi del prossimo. Senza questi tre elementi non c’è Comunità. Tutto il resto è commento. I vari Festival del libro ebraico, del cinema israeliano, i Festival culturali, le Giornate speciali… sono occasioni meritorie e importanti sia chiaro, ma la vita di una Comunità non ha mai ruotato intorno a questi elementi.
Il Rabbinato italiano viene a volte criticato con l’idea che sia legato da un rapporto di dipendenza al Rabbinato israeliano, il quale non sarebbe in grado di avere la giusta percezione delle diverse realtà diasporiche, troppo lontano da quelle che sono le peculiarità della realtà italiana.
La grande illusione italiana è stata quella di vivere in una sorta di bolla, un’isola indipendente dal resto del mondo. L’ebraismo italiano è stato importante e grande solo quando è stato in contatto con il resto del mondo ebraico, cosa che gli ha consentito di produrre pensatori e opere capitali; penso a Kalonymos, il rabbino medievale di origine italiana che arriva in Renania nel X secolo e che fonda una dinastia di rabbini ashkenaziti da cui discenderà il fondatore del movimento chassidico tedesco nel Medioevo; penso a Moshe Haim Luzzatto ispiratore del movimento del Musàr… Più di recente, per molti decenni del XIX e del XX secolo, l’Italia ebraica è sprofondata in un clima di isolamento e provincialismo, una condizione da cui è uscita negli ultimi decenni sia per i contatti molto più frequenti con il resto del mondo ebraico, si pensi soltanto ai movimenti giovanili e alla possibilità di incontri con giovani degli altri paesi e grazie alle opere meritorie di due rabbanim: rav Elio Toaff e a rav Giuseppe Laras, personaggi questi in contatto con le varie realtà ebraiche israeliane ed europee tant’è che hanno fatto parte per anni della dirigenza della Conferenza dei Rabbini europei. Insomma, non possiamo pensare oggi, di vivere in un mondo a parte. Immersi nel villaggio globale, è impossibile essere sconnessi dal mondo.
E poiché non viviamo su un’isola e non possiamo continuare a pensare di essere completamente diversi, ognuno di noi deve accettare criteri comuni e autorità di riferimento. E questo non toglie specificità o differenze, sia chiaro. Chi sono queste autorità di riferimento? I vari Rabbinati europei, il Rabbinato ortodosso americano, la Rabbanut Harashìt israeliana. Non accettare queste autorità e i loro criteri comuni sarebbe come dire che l’Italia sta nell’Unione Europea senza accettarne le regole, cosa impossibile. Ecco perché ritengo che il rapporto con la Rabbanut Harashìt di Israele sia stato un grande progresso per il Rabbinato italiano. Essere in sintonia con loro è una garanzia soprattutto per chi compie un ghiur, la garanzia che questo verrà accettato. La nostra realtà ebraica oggi, contrariamente a quanto pensano alcuni, non è diversa da quella delle principali nazioni europee e addirittura dalla realtà israeliana. C’è un certo grado di uniformità ovunque, e il Bet Din di Parigi ha oggi gli stessi problemi del Bet Din di Milano o Roma. L’ebraismo italiano non si faccia illusioni: non è più così peculiare, non è più speciale di altri, viviamo tutti realtà simili, globalizzate, con gli stessi problemi di ghiurim e assimilazione che sono uguali in tutto il mondo occidentale, anche in Israele.

Tra apertura e rigore
Sì ma l’ebraismo italiano è in allarme rosso; a differenza di altri, oggi patisce un crollo verticale, un calo demografico nonchè un forte rischio di assimilazione. Come orientarsi allora in fatto di conversioni? Accentuando il rigore o con un atteggiamento più “aperturista” e facilitante?
Partiamo dal tema dell’assimilazione. La storia dell’assimilazione ebraica è lunga, inizia nell’Ottocento e arriva ad oggi. Per un secolo e mezzo l’ebraismo europeo figlio degli ideali della Haskalà ha sperimentato e vissuto una corsa all’assimilazione senza pari, mai avvenuta in 4000 anni di storia ebraica… Un tentativo di assimilazione radicale, accaduto in particolar modo in Germania tra Ottocento e Novecento, la celebre simbiosi ebraico-tedesca, una abdicazione radicale al proprio essere ebrei. Nella casa ebraica di Sigmund Freud l’unica festività osservata era il Natale. Il Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, Walther Rathenau, si riteneva tedesco sopra ogni cosa, ivi compresa la sua ebraicità. Oggi la realtà non è più la stessa ovviamente, c’è stata la nascita dello stato d’Israele, c’è stata la Shoah. Ma l’assimilazione è stata un ideale, addirittura un Valore per molti ebrei tra Ottocento e Novecento, perché si è pensato per decenni che questa potesse essere la soluzione al problema dell’antisemitismo. È solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’idea dell’assimilazione perde la sua forza anche se poi resta sottotraccia. E come un fiume carsico, oggi viviamo una riproposizione di quello schema, con un deciso recupero del valore positivo dell’assimilazione e questo io credo sia un netto passo indietro, un modello fallimentare. Un ebraismo senza mitzvòt e tradizione ebraica rischia di svanire.
Negli Stati Uniti, pur in presenza di una realtà ebraica molto ricca e articolata, abbiamo avuto un’assimilazione molto accentuata e il numero degli ebrei americani è sostanzialmente uguale dal dopoguerra ad oggi: il che significa, in termini demografici, che si tratta di una diminuzione.

C’è chi dice che il percorso verso la conversione è ambiguo e discrezionale, non chiaro e uguale per tutti.
Non è così. Abbiamo fatto molti sforzi per renderlo chiaro e uniforme. Abbiamo fornito un programma da seguire. Abbiamo detto chiaramente agli aspiranti gherim che cosa ci aspettiamo da loro, mettendolo anche per iscritto. Abbiamo dato per scontato che ci debba essere uniformità pur sapendo che è impossibile un’uniformità assoluta in fatto di ghiur perché le persone sono sempre diverse l’una dall’altra e ogni caso è un caso a sé, differente a seconda del motivo che lo muove. C’è chi vuole convertirsi perché aveva un nonno ebreo, chi perché vuole sposarsi, chi perché ha attraversato una “crisi” di identità e cerca una forma di rinascita o di risolvere i propri problemi psicologici… Chi è preda di un entusiasmo momentaneo o chi è estremamente serio e determinato o chi è mosso da problemi familiari… Insomma, ogni caso ha peculiarità e motivazioni differenti. Ma in tutti questi casi, se la richiesta è identica, la risposta non può essere standardizzata né omologata.
Alcuni contestano tempi troppo lunghi, rimandi continui, un percorso troppo tecnicistico, che manca un accompagnamento più dolce e inclusivo.
Intendiamoci: tempi “ragionevolmente” lunghi sono fondamentali per verificare la serietà delle intenzioni e della pratica. In alcuni casi i tempi diventano più lunghi semplicemente perché il candidato non è considerato pronto dal Bet Din. Personalmente tendo a non dire mai nettamente a nessuno di desistere: è giusto dare a chiunque la possibilità di cambiare, e di riprovare. Se oggi non è pronto magari lo sarà domani o dopo un anno. Ciononostante qualche NO netto e deciso l’abbiamo anche dovuto dire.
Quali sono quindi le tappe per un percorso di ghiur? È possibile indicarle con chiarezza?
Il ghiur è un processo regolamentato dalla Halakhà, in cui nessun rabbino può fare come vuole. L’atteggiamento che prevale all’inizio è di estrema cautela, di verifica. Prevede una fase iniziale di scoraggiamento e dissuasione. L’aspirante gher viene messo di fronte alle difficoltà di che cosa implichi entrare pienamente nella tradizione ebraica, difficoltà dell’osservanza delle mitzvot, difficoltà nell’essere ebrei in un mondo che non sempre li ama. Se l’aspirante gher supera questa prima fase di dissuasione, viene introdotto  in un percorso di conoscenza non solo halachico ma anche di progressiva adesione all’osservanza delle mitzvot. Alla fine di questo percorso, se il Bet Din si ritiene convinto e se la persona è pronta, allora si arriva al ghiur. E alla fine c’è la domanda ultimativa e fondamentale, ovvero la richiesta di accettare le mitzvot. E se ne viene rifiutata anche soltanto una, il ghiur non può avvenire. Quello che oggi si vuole proporre è di fare il ghiur senza richiedere l’osservanza delle mitzvot. E allora, a questo punto, di profilano due strade, entrambe inaccettabili. La prima: si abolisce l’accettazione delle mitzvòt (kabbalàt mitzvòt) e si va verso la Riforma. La seconda: si mantiene una accettazione formale delle mitzvot, quindi fittizia, senza che si abbia l’intenzione di osservarle. A questo punto mi domando: ma è etico chiedere a un aspirante gher di mentire apertamente? Ovvero di dirmi “sì, mi impegno a osservare le mitzvot” sapendo già benissimo che mi sta mentendo, che non lo farà e che lo sta dicendo solo formalmente?

La conversione dei minori
La questione della conversione dei minori. I figli di matrimoni misti oggi sono una realtà ineludibile e c’è chi spinge per un atteggiamento più inclusivo verso di loro, onde non perderli per strada e non allontanarli da un ebraismo italiano dalle culle vuote… Come si procede oggi nei confronti di queste situazioni?
Ormai da molti anni, a Milano, per decisioni prese dal consiglio dell’Ari presieduto da rav Giuseppe Laras tempo fa, non si eseguono conversioni di bambini sotto i 12-13 anni, età del Bat/Bar mitzvà. Si continuano invece a eseguire, in alcuni casi, conversioni di ragazzi al di sopra di questa età, considerata per la Halakhà età adulta. Si tenga conto che da varie parti la cosa è considerata estremamente controversa perché non si ritiene che un ragazzo di 13 anni abbia la maturità per assumersi un impegno così importante. È giusto che tutti sappiano che convertire i ragazzi è già, di per sé, un atteggiamento facilitante. Ma per poterlo fare è necessario – e richiesto -, un forte coinvolgimento della famiglia che deve impegnarsi ad andare complessivamente verso l’osservanza delle mitzvot. Senza questo il ghiur del ragazzo non è possibile essendo questi ancora in una età della vita in cui non è autonomo e strettamente legato alla famiglia. Facciamo un esempio: mangiare kasher è possibile soltanto se in casa si rispettano le regole della kashrut.
Questa conversione, come le altre, viene attuata nel momento in cui si creano le condizioni che lo permettono. Esempi? Se si è proposto un percorso che è stato svolto in modo parziale. O se il cammino di studio non è stato sufficientemente “metabolizzato” o interiorizzato. Tutti casi in cui si deve ritardare il momento della conversione. C’è anche il caso di chi non fa nessun percorso e si presenta qui pochi mesi prima del compimento dei 13 anni del proprio figlio chiedendo la conversione immediata, cosa ovviamente non possibile. C’è addirittura chi avendo inizialmente rifiutato un percorso di conversione familiare, quando il bimbo era piccolo, poi si presenta, anni dopo, per chiedere di fare il Bar mitzvà al proprio figlio come se nulla fosse.
Capisco che la frequenza alla scuola ebraica di bambini figli di matrimonio misto, che vedono i propri coetanei o compagni di banco fare il Bar mitzvà, possa creare problemi psicologici. Tuttavia credo che questo problema vada superato togliendo enfasi e pathos, sdrammatizzando il problema con l’aiuto di tutti. Per tutti intendo genitori, insegnanti, Rabbinato, e un atteggiamento dell’intera Comunità, per evitare quello stato di tumulto interiore, di corruccio e indignazione costante che portano a sofferenza e ira. Vorrei anche ricordare che l’accettazione di bambini in percorso di ghiur fu a suo tempo molto controversa. Fu accettata anche se si sapeva fin dall’inizio che la cosa avrebbe potuto generare conseguenze negative da un punto di vista psicologico, specie se si fossero verificate delle lungaggini o dei rifiuti. Del resto non si può pensare che un processo di conversione debba comportare ipso facto una conversione obbligatoria e certa.
Ma mi lasci aggiungere ancora una nota a margine. Ma lei lo sa che, un tempo, l’ebraismo andava molto orgoglioso della propria posizione sul ghiur? Si pensava: questo ci rende diversi dagli altri, da coloro che fanno proselitismo, da tutti quelli che convertono in un processo di colonialismo culturale, spirituale, e da modalità missionarie estranee allo spirito della Torà e all’etica dei Profeti. In un certo senso, oggi ci viene chiesto di fare proselitismo facilitando il ghiur. Proprio come faceva il Cristianesimo delle origini che tolse le mitzvot per facilitare la conversione dei pagani, per avvicinare a se più gente possibile.

La differenza tra gher e mitgayer
Ma non è eccessivo parlare di proselitismo davanti a richieste di imboccare una via più accogliente?
No, non lo è. C’è un equivoco frequente. Quando si parla di accoglienza la gente pensa che si parli di coloro che chiedono di convertirsi. Non è così. Dobbiamo imparare a distinguere tra l’accoglienza totale e assoluta verso chi ha già concluso il percorso ed è già un gher, e l’accoglienza verso invece il mitgayèr, ossia colui che chiede la conversione e che è all’inizio del percorso, laddove il nostro dovere prioritario è quello di verificarne convinzioni, motivazioni e determinazione. E, nel caso di un minore, è nostro compito verificare l’impegno della famiglia nell’affiancare il ragazzino nel suo percorso verso l’ebraismo. Insomma, dobbiamo capire che cosa intendiamo con la parola accoglienza. Un discorso completamente diverso riguarda i cosiddetti “ebrei lontani”. Credo che sia un dovere assoluto di ognuno di noi quello che la tradizione ebraica chiama keruv rechokìm. Dobbiamo impegnarci a farlo, a trovare gli strumenti giusti, spesso siamo deficitari da questo punto di vista nonostante la buona volontà. L’accoglienza quindi è un dovere di avvicinamento dei lontani e del gher che ha terminato il percorso di conversione.
Durante il percorso di ghiur, alcuni lamentano modi bruschi con cui avvengono i controlli, incursioni di sapore “poliziesco” nei frigoriferi di casa, un meccanismo inquisitorio per verificare che la kasherizzazione della cucina sia avvenuta secondo le regole.
Non ci sono controlli a sorpresa ma questi vengono sempre concordati. Inoltre, in molti casi non si tratta di un controllo ma di un aiuto. La verità è che non è semplice kasherizzare una cucina se non lo hai mai fatto. Molte persone a cui si chiede di mangiare kasher non sono in grado di organizzare una casa kasher. L’Ufficio rabbinico dà una mano ed è nelle sue mansioni farlo. Capisco che qualcuno possa vivere con fastidio questo controllo. Ma nel momento in cui si decide di iniziare un percorso di ghiur lo si fa con un Bet Din il quale ha l’onere e il dovere di verificare che questo avvenga. Potrà anche essere percepito come un limite ma è parte integrante dell’impegno del ghiur che volutamente pone dei limiti, uno dei quali è la casa kasher. Se qualcuno vuol diventare ebreo, sa che ci sono delle tappe e delle regole.
La milà e la carenza di mohalim: è prevista una formazione per il mohel?
Certamente. È prevista una formazione. In genere i mohalim si formano con altri mohalim esperti e ricevono una certificazione. Ovviamene alla fine è fondamentale l’esperienza del mohel.
Perché viene negata la hashgachà a chi chiede un catering kasher per celebrare un matrimonio misto?
Il punto qui è semplice: non si può aiutare una persona a compiere una trasgressione. Ad esempio: non posso prestare la mia macchina di shabbat. In questo caso, l’averà è il matrimonio misto. Ed è l’aiuto a compiere l’atto di averà che è vietato. La qual cosa non esclude che, in un secondo momento, non si possa essere vicini a chi ha commesso la trasgressione.
Come vede il futuro del mondo ebraico italiano?
Credo che nell’immaginare il futuro dobbiamo uscire da un’idea diffusa, l’idea che la situazione è questa e che non cambierà, l’idea che si debba prendere atto della realtà per ciò che è e adattarsi ad essa. È il modo di pensare degli esploratori quando dicono che la terra d’Israele è impossibile da conquistare. La risposta agli esploratori che descrivono la realtà che pensano di aver visto è di Caleb che dice ce la possiamo fare perché Dio è con noi.
La storia ebraica è piena di situazioni apparentemente senza uscita da cui si è usciti. La realtà dell’ebraismo italiano presenta luci ed ombre, c’è molta assimilazione ma c’è stato anche un forte avvicinamento alla tradizione, soprattutto nelle grandi comunità. Penso che sia necessario valorizzare le luci e fare i conti con le ombre provando a immaginare soluzioni nuove, provando a intervenire superando gli schemi del passato. Credo sia urgente farlo ma bisogna farlo avendo fiducia nella possibilità di cambiamento.
Nel Tanà devè Eliahu è scritto che ognuno di noi deve chiedersi quando “arriveranno le mie azioni alle azioni dei miei padri”, quando non se.