Mare, sabbia, deserto: la tavolozza poetica di Barbara Nahmad

Arte

di Sofia Tranchina

La memoria, l’insegnamento, l’irriducibile “contentezza interiore” di avere una patria: la pittrice Barbara Nahmad racconta Israele, il suo mondo artistico e lavorativo. Nata a fine anni ’60 a Milano da una famiglia ebraica mediorientale, Nahmad ha affrontato l’arte e la vita senza mai sottrarsi all’indagine identitaria che accompagna ogni ebreo alla ricerca di un Israele, fisico o metaforico, reale o utopico. Diplomata all’Accademia delle Belle Arti di Brera, dopo un rodaggio nel mondo della scenografia, televisione e teatro, si è tuffata nella pittura, ha aperto uno studio e non ha più abbandonato il pennello. Al centro della sua serie più celebre, Eden (esposta nel 2014 a Tel Aviv), ritorna Israele, sotto forma di un miraggio, ma anche di un ricordo nostalgico di quei primi anni eroici, l’ethos del primo Israele che Nahmad recepisce dal profondo della propria identità. «Eden è un omaggio ai pionieri, un tributo artistico nei confronti di quel periodo della storia ebraica caratterizzato dalla forza di costruire un nuovo Paese».
Un Paese nuovo. Una casa. «Un Paese giovane e pieno di giovani», lo descrive, ricordando quando l’Hashomer Hatzair l’ha portata a vivere nel kibbutz Sasa: «avevo 20 anni e pensavo di rimanere a vivere lì per sempre, ma questioni familiari mi hanno costretta a tornare». È la nostalgia per un luogo tanto mentale quanto concreto, un «mondo un po’ ideale e cionondimeno reale, fatto di giovani che lavorano la terra, di collettivismo, di socialismo e di cultura»: tutto ciò ha partorito una serie pittorica che recupera e fa rivivere le fotografie storiche degli anni ’50 con «un certo rimpianto per quegli anni in cui la vita sembrava più semplice». Nelle tonalità sabbiose del deserto dei suoi tableaux «riaffiora la memoria di un popolo» da cui emerge, al cuore di tutto, la realizzazione che «la terra è nazione». «All’epoca c’era una capacità di avere una visione, di sognare un futuro, che infondeva una forza morale e fisica anche nei momenti più drammatici, permettendo di assumersi il rischio di lasciarsi alle spalle la propria vita, per abbracciare con ostinata pervicacia un’avventura priva di prospettive certe».

 

 

Dopo anni di lavoro solitario nel suo studio, Nachmad ha abbracciato il mondo dell’insegnamento accettando una cattedra a Brera: «l’insegnamento è una parte preziosa, interessante e feconda, che riguarda il rapporto col futuro e i giovani. È una questione molto ebraica: quello che sai fare lo devi insegnare ai posteri». E proprio a Brera ha iniziato la sua «opera della memoria»: una serie di eventi dedicati al Giorno della Memoria, per invertire la progressiva perdita di senso che accompagnava da anni il ripetersi di tale ricorrenza. «Con i progetti per la memoria ho dichiarato il mio amore per le mie origini, ma anche un tentativo di uscire dalla dimensione diasporica appesantita dalla Shoah: ho dato al tema un tono più battagliero e meno sofferente». I lavori teorici, troppo seri e corposi, non funzionano più con gli studenti, che «si annoiano e non partecipano». Per stimolarli, la soluzione è stata partire dalla memoria per «approcciarsi al presente». Oggi col flusso dei media «non ti ricordi nemmeno quello che hai detto ieri», e questo consente una propaganda senza limiti. «L’ultima stampella che ci rimane è la memoria, che crea una dimensione identitaria»: se tu ricordi, non sei esposto al flusso di informazioni che spinge da una parte e dall’altra. Con un pensiero lento e lungo sulle cose, ti sottrai a un mondo che non è più radicato. La serie pittorica Oltremare (Galleria Federico Rui a Milano, Museo d’Arte di Tel Aviv), affronta invece una dimensione spirituale metafisica di interazione tra l’Io e la Natura: «quando l’uomo è a contatto con una natura forte entra in contatto con la propria interiorità». Paesaggi su cui spirano aneliti e struggimenti, mari nordici di ferro e acciaio, dove il blu è una conquista lontana e perduta, dove mare e cielo sembrano incernierarsi l’uno con l’altro. Non si vede terra, non compaiono figure umane, ma solo l’orizzonte, una «linea immaginaria costruita dal nostro cervello».