Tra farina e Torah: lavoro, identità e il senso di una crisi silenziosa

JOB news

di Dalia Fano, responsabile JOB

Lo scorso 12 giugno, insieme al Segretario Generale della Comunità Ebraica, Alfonso Sassun, siamo stati invitati a portare il nostro contributo a una tavola rotonda presso l’Università Cattolica, sul tema dell’inattività lavorativa maschile.
L’incontro, intitolato “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”, ha messo a confronto prospettive religiose e accademiche su un fenomeno tanto attuale quanto trascurato: quello degli uomini adulti che, spesso in silenzio, si ritirano dal mondo del lavoro.

A nome della nostra Comunità, il tema è stato introdotto da Alfonso Sassun, il cui intervento – profondo, lucido e saldamente ancorato alla nostra tradizione – ha offerto una lettura teologica ed esegetica densa di spunti. A questo ho affiancato un contributo più operativo, legato all’esperienza quotidiana di JOB, l’Agenzia per il Lavoro della Comunità Ebraica.

Non intendo qui ripercorrere i contenuti complessi e articolati del dibattito, che meriterebbero altri spazi e strumenti. Vorrei però cogliere l’occasione per riattualizzare alcuni temi emersi, riletti alla luce dell’osservatorio privilegiato che rappresenta il nostro lavoro in JOB.

 

Oltre la scelta: il lavoro come nodo identitario

Il dibattito contemporaneo parla di quiet quitting, great resignation, downshifting – espressioni che descrivono il rifiuto consapevole di modelli lavorativi considerati insostenibili.
Queste narrazioni, che mettono in discussione ritmi produttivi logoranti e dinamiche alienanti, meritano ascolto.

Ma accanto a chi lascia per scelta, c’è anche chi si ritira per fatica. Una fatica profonda, spesso silenziosa, che non si adatta al mercato del lavoro contemporaneo.
È il caso di chi, dopo anni di attività autonoma o imprenditoriale, fatica a reinventarsi in ruoli subordinati. Di chi vive fragilità che rendono difficile il reinserimento. Di chi si confronta con una perdita di senso che rende ogni proposta occupazionale priva di significato.

Per molti, il lavoro non è più una via di realizzazione, ma qualcosa di estraneo, persino ostile.
In queste situazioni, “trovare un lavoro” non basta. È necessario prima capire che cosa si è spezzato. Quale percorso ha portato a quel ritiro? Che cosa sta davvero cercando – o evitando – chi si è allontanato dal lavoro?

Tra farina e Torah: il lavoro come equilibrio vitale

Nella tradizione ebraica, il lavoro ha un valore essenziale, ma non assoluto. Non è mai stato vissuto come un fine, bensì come un mezzo: uno strumento per partecipare alla costruzione del mondo (Tikkun Olam), purché sostenuto dalla riflessione e orientato dal senso.

L’equilibrio tra la farina (la sussistenza materiale) e la Torah (l’elaborazione del significato) è un principio fondante.
Come ricordano i Pirkei Avot:

“Senza farina non c’è Torah, e senza Torah non c’è farina.”

Quando il lavoro viene meno, non si perde solo reddito: si frantumano relazioni, ruoli, visioni di sé. E allo stesso tempo, quando il lavoro perde senso, diventa alienante, meccanico, talvolta persino umiliante.

È proprio in questa tensione tra ciò che sostiene e ciò che orienta che può nascere una ripartenza autentica: non per tornare a fare “qualcosa”, ma per ricostruire un legame tra ciò che si fa e ciò che si è.

Il lavoro non è un idolo

Un altro principio cardine della nostra tradizione è il rifiuto di ogni forma di idolatria – incluso l’idolatria del lavoro.
Lo Shabbat, con la sua interruzione radicale dell’attività produttiva, ci ricorda ogni settimana che il valore della persona non risiede in ciò che produce, ma nella sua essenza.

Questa sospensione settimanale è molto più di un rito religioso: è una resistenza spirituale. Un’ancora che protegge dall’iperattivismo, dal burn-out, dalla perdita di senso.
Ci invita a ripensare il lavoro come parte di una vita piena, non come sua misura assoluta.

In questa luce, anche certi ritiri che a prima vista sembrano rinunce o fallimenti possono essere invece segnali di disallineamento profondo, richieste di una diversa relazione con il fare, con il tempo, con sé stessi.

JOB: ascolto, orientamento, possibilità

In questo contesto, JOB non è solo un’agenzia per il lavoro. È uno spazio di accompagnamento.
Un luogo in cui il reinserimento professionale non è un obiettivo imposto, ma una ricerca condivisa, costruita nel rispetto della storia e delle risorse di ciascuno.

Il nostro compito non è spingere al rientro, ma favorire la riemersione. Offrire possibilità. Sostenere e accompagnare passaggi.

Ogni accompagnamento è anche un atto di Tikkun Olam: una ricucitura, una piccola riparazione di senso nel percorso di vita di chi ci si affida.
Perché la crisi non è solo ostacolo, ma anche soglia.
E ricostruire un nuovo equilibrio tra farina e Torah, con competenza, ascolto e fiducia, è forse una delle sfide più profonde – e più umane – del nostro tempo.