La grande mela e i suoi ebrei

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Lubavitch, chassidim, liberal, ortodossi, modern orthodox, conservative e reformed, ebrei di destra e di sinistra, repubblicani e democratici, Black Jews e Bobov, hippy e religiosi. Parlano russo, yiddish, americano, pharsi, mangiano gefilte fish, knishes, baklawa, o hamburger, patatine e kosher sushi, ascoltano rap, canti di preghiera e folk music. Sono gli ebrei di New York raccontati nell’ultimo di libro di Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa di Torino dagli Stati Uniti.

Non dire notte

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68 anni, tra gli scrittori più noti in Israele e a livello internazionale, che ha ricevuto due riconoscimenti a Milano: l’Ambrogino d’Oro del Comune e il premio Uomo dell’anno 2007 dalla Associazione Amici del museo d’arte di Tel Aviv. Il suo ultimo libro Non dire notte è il primo in classifica in Italia per la narrativa straniera. Mosaico lo ha intervistato e ha seguito il suo incontro con il pubblico alla libreria Feltrinelli. “Tutto in Israele è nato dai sogni e dai libri. Potrei generalizzare e dire che ogni azione umana, ogni essere umano, ogni creazione nasce dai sogni. I sogni vengono prima, i libri vengono prima”, ha detto Oz.

Noè secondo i rabbini

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di ambito cattolico esce questo volume di non grande mole ma di estremo interesse per una serie di ragioni.
Innanzi tutto è il terzo di una collana diretta da Elena Lea Bartolini, diretta a quanti in ambito cristiano desiderano conoscere ed approfondire la lettura ebraica della Torah. Prima di questo volume sono usciti il commento di Rav Elia Kopciowski allo Shemà ed un volume della stessa Bartolini su Gerusalemme nella tradizione ebraica.

Scrivere l’incomunicabile

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Il titolo di questa mia riflessione, mancando di punteggiatura, è ambiguo. Letto col punto fermo alla fine, esso si riferisce al seminario cui è stato esposto, dedicato da sei anni alla memorialistica della deportazione: lo sforzo che le vittime fecero per testimoniare la violenza inaudita di cui erano state vittime. Letto col punto interrogativo che gli era stato inizialmente attribuito, il titolo vorrebbe alludere alla difficoltà connessa al racconto dei fatti della Shoà, soprattutto nella modalità più “normale” della narrazione, quella non storica o memorialistica, ma finzionale. Vediamo le ragioni di questa difficoltà.

Sono passati più di sessant’anni dalla chiusura dei lager nazisti – un tempo che normalmente è sufficiente a decantare i fatti e ad assicurare il distacco della storia, e ancora non è semplice parlare intorno ai crimini che vi accaddero – e che chiameremo col nome attinto alla tradizione ebraica di Shoà, anche quando colpirono altre categorie di reclusi, come gli zingari e i deportati politici. Non solo perché continua ostinata la propaganda del negazionismo, che ha trovato alimento recente al di là del vecchio ambito neonazista, nei movimenti arabi e più in generale islamici che cercano attraverso la messa in dubbio della Shoà di delegittimare lo stato di Israele.

Tremila anni di poesia

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“Forte come la morte è l’amore”, struggente e terribile verso del Cantico dei Cantici, dà il titolo a questa antologia in cui sono raccolte, con il testo originale a fronte, poesie scritte in ebraico in tremila anni di storia del popolo d’Israele. Il libro non può che iniziare con il testo integrale del Cantico dei Cantici, inno alla donna e alla sua bellezza, che non è solo membra aggraziate e occhi sognanti, ma anche e soprattutto il coraggio di vivere l’amore nella piena coscienza di quanto questo sentimento possa essere terribile. È la giovane protagonista a non accettare di doversi velare per seguire il compagno, è lei a dichiararsi malata d’amore, a uscire sola in strada di notte per cercare colui che la sua anima ama, è lei a invitare l’amato a uscire nei campi per lasciar fiorire il loro sentimento insieme alla primavera.

I GIUSTI. Gli eroi sconosciuti dell’Olocausto

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britannici del XX secolo più noti. Come per molti altri storici anglosassoni la rigorosa documentazione e le ricerche approfondite si accompagnano nelle sue opere ad una capacità narrativa e ad uno stile espositivo di grande leggibilità, senza quell’aridità erudita che spinge il lettore non accademico o specialista chiudere il libro dopo poche pagine. In quest’opera, uscita in edizione originale nel 2002, Gilbert espone i risultati di un suo lavoro di ricerca negli archivi di Yad Vashem, nel dipartimento di Giusti, diretto per più di vent’anni da Mordechai Paldiel, cui il libro è dedicato in segno di gratitudine.

Filosofia ebraica? Parliamone

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Ha senso in generale parlare di “filosofia ebraica”? Naturalmente sì, se ci riferiamo a una tradizione che si è definita chiaramente in questo modo e va indietro fino a Filone d’Alessandria, e passando per Maimonide, Spinoza e Mendelsohn arriva ai grandi nomi del Novecento, da Cohen a Rosenzweig a Lévinas: una filosofia non solo fatta da ebrei, ma che si vuole ebraica nei contenuti e nello scopo.
Nondimeno esiste una certa difficoltà nel parlare di “filosofia ebraica”, e forse vale la pena di discutere di questo problema. Esso va posto in due direzioni: può esistere una filosofia che sia ebraica invece che – diciamo – protestante o cattolica, italiana o americana? Ed esiste un pensiero davvero ebraico che possa dirsi filosofico?

Fantasy in ebraico

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La letteratura fantasy sbarca in Israele. E rischia di oscurare la fama di Harry Potter. Un ragazzino del Negev, coinvolto
suo malgrado in un conflitto iniziato tremila anni fa fra Sodoma
e Gomorra, vittima di un re babilonese menzionato dalla Bibbia e
da antichissimi testi cuneiformi, è l’eroe di un nuovo romanzo
israeliano che sta destando attenzione non solo nel pubblico ma
anche in ambienti accademici perché rappresenta uno dei primi
tentativi di scrivere letteratura fantasy in lingua ebraica.
Stampato in economia dalla piccola casa editrice Ahuzat
Bayit di Tel Aviv, il libro è uscito a settembre e ha venduto
diverse migliaia di copie. Ha ricevuto critiche positive ed è
stato oggetto di un dibattito in una Bibilioteca di Tel Aviv.

La necessità di raccontare

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Scrittore, poeta, intellettuale che sfugge a ogni definizione. Miro Silvera continua il suo viaggio all’interno del mondo della letteratura vista con gli occhi delle sue esperienze ebraiche. E continua a sostenere la necessità di raccontare.
In un intervento tenuto ad Amsterdam in occasione del convegno sulla Letteratura degli ebrei italiani e organizzato da Raniero Speelman dell’Università di Utrecht, Silvera ha portato assieme a studiosi e letterati come Giorgio Pressburger ed Elena Loewenthal, un intervento sul bisogno di scrivere degli ebrei in qualche modo legati alla cultura o all’identità italiana.

LETTURE (QUASI) EBRAICHE

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come grande testimone della Shoà, grande scrittore impegnato a spiegare instancabilmente le forme della persecuzione antisemita e a battersi per i diritti umani, Premio Nobel per la Pace. O il Wiesel che ricorda la civiltà ebraica orientale, il mondo dello stehtl e la paradossale saggezza del chassidismo. Ma vi è anche un Wiesel pensatore, che usa la sua educazione talmudica tradizionale per affrontare problemi legati al testo della Torah e dunque all’essenza dell’ebraismo.

LETTURE (QUASI) EBRAICHE

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ai procedimenti della filosofia occidentale il pensiero ebraico ha qualcosa di scandaloso, per molte ragioni. Innanzitutto per il suo attaccamento alla tradizione del racconto, non solo alla narrazione della Torà ma anche al midrash, senza rinunciare anche ai suoi aspetti in apparenza più ingenui e favolosi, anzi facendone occasione di riflessione e spiegazione. In secondo luogo per l’uso spregiudicato del significante, non solo attraverso pratiche ermeneutiche codificate come la Ghimatria e il Notarikon, ma anche con l’uso di etimologie, somiglianze, assonanze come strumenti di interpretazione.