Voci dal fronte: da Kiev a Tel Aviv, convivere con la guerra

2025

 

n° 7-8 - Luglio-Agosto 2025 - Scarica il PDF
n° 7-8 – Luglio-Agosto 2025 – Scarica il PDF

In Ucraina gli ebrei difendono la patria dalla aggressione di Putin, mentre i rabbini affiancano i soldati sul campo, portando conforto, ascolto e presenza. Vivere (e lottare) sotto le bombe russe: da Kiev a Dnipro, tra allarmi, tefillà e kiddush.

E in Israele? Le guerre a Gaza e con l’Iran, attacchi reciproci, fragili tregue e l’obiettivo strategico di fermare per sempre il nucleare islamista, scongiurando l’incubo atomico. Ecco le testimonianze sul campo

 

 

Cara lettrice, caro lettore,

è possibile vedere il bicchiere mezzo pieno, si può essere speranzosi e ottimisti anche quando la precarietà ti circonda, il disordine ti travolge, l’incertezza ti paralizza? Da qualche tempo viviamo immersi in una stagione impazzita, fatta di pandemie, guerre, conflitti, collassi, caos, ordinario antisemitismo, intelligenze artificiali, rivolgimenti che percepiamo come epocali e che ci destabilizzano. Con una costante incomprensibile: il mondo (individui e collettività civile) sembra aver perso la facoltà di leggere la realtà che lo circonda, di riconoscere ciò che è, di esercitare una corretta lettura dei fatti. Così, quando non abbiamo il controllo di ciò che accade fuori, ci concentriamo sulle nostre angosce e fantasmi, sulle paure e insicurezze tipiche dei momenti di precarietà e non distinguiamo più il vero dal falso.

Una società della paura la nostra, dove conta il racconto, non la realtà. È il trionfo dello storytelling, è l’idea che il racconto sia più forte della realtà e che i fatti contino poco o nulla. È come se vivessimo in una post-realtà, in un universo capovolto e parallelo alla Philip K. Dick. Sommersi da un diluvio d’informazioni contrastanti non sappiamo più distinguere tra verità e falsificazione. Immersi in un’orgia di attualità banalizzata, annegati nella tifoseria binaria degli accadimenti (buono-cattivo, bianco-nero, indiani-cow boy), è la dimensione sfaccettata del reale che ci sfugge, la sua complessità.

Un mondo che ha perso il senso della complessità può diventare pericoloso. Una società che non sa più guardare a se stessa con l’ampiezza felice del raziocinio e che non sa più chiamare le cose con il loro nome perde lucidità e direzione. Ma se la complessità è morta, che cosa diventa la realtà se non appunto una storiella semplificata, un cartone animato, una trappola narrativa manipolata da faziosità e tifoserie ideologiche?, tutti convinti di essere dalla parte giusta della storia, mentre invece ecco gli assassini scambiati per vittime, gli oppressi per gli oppressori?

Osservo le immagini degli striscioni che sfilano negli scioperi e nei cortei delle ultime settimane e leggo: Aumentare i salari, fermare il genocidio / Per Gaza, per i salari / Investire nel Welfare – Palestina Libera / Giù le mani dall’Iran. Mi chiedo: che cosa c’entrano i salari con Gaza? Quale nesso tra l’inflazione e la Palestina? E l’Iran, non era il regno dei forsennati assassini di Mahsa Amini, dei lapidatori di adultere e omosessuali, la repubblica delle impiccagioni all’alba? Non dovremmo festeggiare la fine di un regime del genere? Avendo perso la facoltà di leggere la realtà possiamo raccontarla come più ci piace, mi dico. Perché questo conforta i nostri pregiudizi, i nostri pigri modelli mentali. Torti e ragioni annegati in un unico calderone.

Allora, forse, il rischio è di finire come quei due giovani pesci che nuotando vigorosi nell’oceano incontrano un vecchio pesce che li saluta e domanda: “Ehi ragazzi, com’è l’acqua?”. E loro, guardandolo, perplessi: “L’acqua? Cos’è l’acqua?”.

Fiona Diwan