Chanukkà e la questione del Tempio: come lottare e difendere il diritto di essere diversi

2022

 

 

n° 12 - Dicembre 2022 - Scarica il PDF
n° 12 – Dicembre 2022 – Scarica il PDF

Difendersi contro l’omologazione culturale e religiosa. Costruire il proprio “santuario” interiore.
È il messaggio della festa di Chanukkà che celebra la riconsacrazione del Tempio. Com’è nata allora la negazione della storia ebraica di Gerusalemme? Perché l’Unesco fa del Monte del Tempio un sito solo islamico? Una sacralità condivisa è possibile?
Risponde il saggio di due studiosi, un testo importante per capire l’urgenza del problema.
Perché cancellare la Storia ebraica non si può

 

 

 

 

Caro lettore, cara lettrice,

Si potrebbe leggere il corpus delle Scritture ebraiche, il Tanach, come un poderoso elogio dell’imperfezione: Mosè che balbetta, Giacobbe che zoppica acciaccato dopo la lotta con l’Angelo, Giona che scappa a gambe levate davanti al suo destino, re Davide che si nasconde, fugge, piange e si finge pazzo per salvarsi la pelle (un Re!). La narrazione ebraica da sempre predilige figure anti-eroiche e anti-retoriche, non nasconde la fragilità, non esibisce narrazioni muscolari o vittorie alate da plaudire. Addirittura, «nella lingua ebraica non esiste la parola mito, la mitologia ha bisogno di eroi mentre i personaggi della Bibbia di fronte alla loro missione si fanno piccoli, prendono coscienza di quella precarietà che li renderà forti», dice Roberto Della Rocca nel suo ultimo saggio, Camminare nel tempo (Giuntina). Anti eroi, appunto. E così, ecco uno sguardo ironico che cala sulla presunta onnipotenza umana, l’insegnamento del limite e del contenimento dell’Ego che viaggia insieme a una crepuscolare sensibilità per tutto ciò che è vulnerabile, che rende incompleti e marginali. Una sensibilità “liminale” che si modella sulle soglie della coscienza e della percezione, che coglie la vita negli anfratti e permette di catturare immagini e visioni molto diverse da quelle trionfali o di successo che ci regala la sensibilità mainstream.

Guardando i ritratti oggi in mostra a Milano, a Palazzo Reale (fino a fine gennaio), di un genio incontrastato della fotografia del XX secolo come Richard Avedon, è proprio questo mood anti-eroico quello che salta agli occhi, la capacità formidabile che Avedon aveva di catturare ciò che langue soffuso e indisturbato nell’ombra e nelle remote regioni di noi stessi: ecco allora la fotografia della Marylin più malinconica di sempre, il ritratto di Truman Capote immerso nella svagata cupezza delle sue elucubrazioni depressive, un Ezra Pound duro e roccioso come i solchi che ne scavano il volto… Immagini divenute a tal punto iconiche da farci dimenticare persino di chi fosse l’occhio che le ha sapute “inventare”. Moda, eleganza, star-system, operai e rivolte sociali. Ma anche scatti fotografici che sono un intervento a cuore aperto, nudità e palpito, l’essenziale nell’umano, il coagulo delle fragilità che si cela in ciascuno. Uno smarrimento esistenziale esito di un’origine ebraica che è anche il paradigma di una condizione dell’uomo contemporaneo in generale, nella sua esperienza di perdita, di esilio da se stesso. Come si arriva a cogliere il cuore nascosto, la bellezza tragica delle figure che si decide di ritrarre? Il Tempo non fa prigionieri è vero. Eppure, le immagini di Avedon ci incatenano ancora, rendendoci prigionieri di una verità dell’essere che ci riguarda e che, lei sì, è senza tempo.

Il padre di Richard si chiamava Jacob Israel Avedon, era un immigrato russo cresciuto in un orfanotrofio di New York che aveva aperto un negozio di vestiti sulla Fifth Avenue. Gli scatti di Avedon fatti a suo padre negli ultimi anni di vita restano una delle testimonianze più struggenti di un fotografo verso il proprio genitore, uno dei momenti più intimi e alti della fotografia del secolo scorso. Mi aggiro così per le sale della mostra, guardo i ritratti di Henry Kissinger, di Allen Ginsberg, di Isahia Berlin, dei Beatles, leggo i pannelli e le didascalie e arrivo alla conclusione. Ecco: non trovo un solo accenno, non una parola sulle origini ebraiche di Avedon. Incredula, torno indietro, alla foto di gruppo della sua famiglia, zie, zii, cugini e vecchietti ashkenaziti: non un rimando al fatto che fossero ebrei. O al fatto che una sensibilità così eclettica e anti-eroica possa essere figlia di un destino di sradicamenti, traumi e fragilità. Trovo scritto: newyorkese, americano, cittadino del mondo. Ebreo, mai. Ed è triste.

Fiona Diwan