Israele – e non Hamas – sul banco degli imputati? Ma perché l’Occidente non riesce a capire il Medio Oriente?

Taccuino

di Paolo Salom

[Voci dal lontano Occidente]

Che tempi stiamo vivendo. Come se non bastassero le guerre, ora anche il commercio internazionale è diventato un terreno di scontro.

E il piccolo Stato degli ebrei intanto continua a difendersi in una regione sempre più nel caos. Appare ogni giorno di più sorprendente che il lontano Occidente non riesca a percepire la realtà mediorientale: un’unica isola di diritti e libertà circondata da Paesi (Paesi?) straziati da conflitti settari e tribali, dominati da élite sanguinarie, uniti soltanto dall’intento di distruggere Israele. Sarebbe logico attendersi solidarietà da chi condivide cultura e obiettivi sociali. Invece accade il contrario, ancora e ancora: Israele è tornato a combattere per liberare gli ostaggi rimasti nelle mani dei terroristi di Hamas, a Gaza – 59 esseri umani soltanto la metà dei quali ancora in vita – e di nuovo si levano le voci contro le “azioni crudeli” di Tsahal.

Viene naturale chiedersi che cosa avrebbero fatto nazioni come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la stessa Italia in una situazione simile. Si biasima Gerusalemme per una guerra che non ha voluto invece di condannare senza ambiguità chi quella tragedia l’ha cercata fino in fondo. Perché questo scollamento dalla realtà? Nel secondo conflitto mondiale gli Alleati hanno combattuto, senza tentennamenti, fino alla resa totale dei loro nemici: in Europa i nazifascisti, in Asia, i giapponesi. Cosa c’è di diverso nella guerra contro Hamas (e i suoi alleati iraniani e yemeniti)? Nulla se non le proporzioni: gli israeliani stanno combattendo per liberare i loro (i nostri) fratelli strappati alle loro case. Per sconfiggere un male sconfinato che mira, per sua stessa ammissione, al genocidio degli ebrei. Eppure i combattimenti finirebbero comunque all’istante se tutti gli ostaggi venissero liberati: ma in quale contesto (altro che per Israele) è accettabile che un branco di terroristi sanguinari vengano considerati interlocutori con i quali trattare uno “scambio”? Io capisco le famiglie dei disgraziati tenuti prigionieri da un anno e mezzo in condizioni abiette e crudeli. Il loro dolore è il nostro. Ma chi critica Israele perché cerca di riportare a casa queste anime e vuole distruggere i nemici perché non ripetano (come promettono) un altro 7 ottobre, si rende conto dell’inversione morale di cui si fa responsabile? A nessuno piace la guerra, ma quale altro strumento ha a disposizione una nazione attaccata e minacciata con tale violenza?

Oggi si parla, ogni giorno, di “vittime palestinesi”, si danno numeri che nessuno può (o vuole) verificare. Si mette Israele – e non gli sgherri di Hamas – sul banco degli accusati, si intima agli ebrei della diaspora (è successo in Italia) di prendere le distanze, anzi, di “condannare” Israele per non essere considerati “complici”. E, ahimè, qualcuno di noi è effettivamente caduto in questa trappola retorica. Bene, io insisto: questo è un momento decisivo nella Storia di Israele e degli ebrei della diaspora. Per quanto dolorosi gli eventi di cui siamo testimoni, dobbiamo continuare ad avere fiducia nel nostro essere nazione, dobbiamo sostenere Israele e sostenerci l’un l’altro perché quello che accade nel lontano Occidente, non facciamoci illusioni, ha radici antiche e un solo scopo: cancellare tutto quanto abbiamo ricostruito. Non facciamoci sovrastare: siamo un piccolo popolo ma abbiamo dentro di noi tutte le risorse per superare anche questo ostacolo.