Elefanti ed ebrei

Taccuino

di Paolo Salom

Vale la pena essere ottimisti, o è più realistico essere pessimisti? Cominciamo bene, penserete voi. In Medio Oriente, di questi tempi, qualunque pensiero, teoria o aspirazione vale esattamente quanto il suo opposto. Ieri Assad sembrava saldo sul suo trono (per quanto ridimensionato), oggi appare sul punto di essere sconfitto; qualche settimana fa l’Isis era dato in rotta e prossimo a scomparire nel nulla, oggi passa di conquista in conquista e il lontano Occidente si mostra spaventato. Quindi? Beh, come potrebbe osservare Hugh Nissenson, autore di “L’elefante e la mia questione ebraica” (Giuntina, 1991), anche se non se ne parla, Israele è comunque l’argomento principe di qualunque ragionamento. Solo che da noi si tende a vedere la questione – ovvero il conflitto con i palestinesi – come una variabile indipendente (e ingessata) rispetto a quanto accade intorno. Che importa se gli Stati arabi si sfaldano, i regimi crollano, milioni di profughi vagano da una frontiera all’altra (e molti attraversano il Mediterraneo come ben sappiamo), stragi inenarrabili avvengono dalla Siria allo Yemen? Il punto fondamentale, è chiaro a tutti i soloni della politica internazionale, è che una volta “risolta” la questione palestinese, la pace scenderà d’incanto sulla Terra Santa.

imagePermetteteci di dirci (almeno un po’) scettici. Il Medio Oriente non è il lontano Occidente (e tuttavia, considerato quanto accade in Ucraina, potremmo presto scoprirci molto simili), dove i confini “riconosciuti e permanenti” sono visti come una soluzione definitiva a un conflitto. In fondo a questa idea della convivenza internazionale, se i palestinesi avranno il loro Stato le ragioni che scatenano terrorismo e/o le rivendicazioni irragionevoli cadranno una volta per tutte. Insomma: basta che Israele rinunci al controllo dei Territori, ritorni alla linea di demarcazione del 1967 e il gioco sarà fatto. Peccato che le cose non stiano affatto così. E non si tratta soltanto dell’ostacolo “colonie”. Il vero freno alla pace è proprio l’incapacità di leggere la realtà da parte dell’Occidente. Certo nessuno si aspetta che il mondo arabo (inteso come l’insieme della varie società) dall’oggi al domani impari non dico ad amare ma almeno a tollerare la presenza di Israele in una zona del mondo che considerano di loro esclusiva proprietà. In verità il problema più grande sta nella pervicacia con cui da questa parte del globo si insiste che l’unico attore in dovere di fare concessioni sia proprio lo Stato ebraico.

E pazienza se le condizioni di sicurezza ai confini sono di giorno in giorno più volatili. Pazienza se la Giordania, l’Arabia saudita e altri Paesi arabi, in segreto, si consultino con Gerusalemme per studiare una strategia comune di difesa. Dagli Stati Uniti e dall’Europa le richieste, le intimazioni, le minacce anche, sono sempre le stesse. Perciò non stupiamoci se Abu Mazen e i suoi accoliti non si degnino nemmeno di considerare qualche rinuncia tra i tanti diktat che hanno imposto per tornare al tavole delle trattative: hanno le spalle coperte, sanno che su di loro non preme alcuna diplomazia internazionale. Poi, che a Gaza e nei Territori esistano due realtà evidentemente incompatibili non conta più di quanto non conti l’esame obiettivo dei fatti. Tanto l’idea di molti, nel lontano Occidente, è che Israele sia un “problema” temporaneo. O no?