Si spegne a 87 anni l’”asso degli assi”. Israele piange la morte di Giora Epstein

Personaggi e Storie

 di Anna Balestrieri

All’alba del 20 maggio 1938, quando il sole scivolava sulla polvere rossa del Negev, nacque a Kibbutz Negba un bambino destinato a diventare leggenda: Giora Epstein. I suoi genitori, Hillel e Chaya, erano arrivati poco prima dalla Polonia con la aliyah degli scampati all’ombra nera dell’Europa: pionieri di Hashomer Hatzair, piantarono tende, viti e speranze in quella porzione di deserto che chiamarono casa. Fu lì, tra i filari appena tracciati, che il piccolo Giora imparò a distinguere il canto delle allodole dal rombo lontano dei caccia dell’aviazione nascente – e a sollevare lo sguardo ogni volta che un’ala d’argento graffiava il cielo.

Il ragazzo che sfidò il proprio cuore

A diciott’anni tentò il corso piloti, ma un battito giudicato irregolare lo fece atterrare bruscamente: “non idoneo”. Non si arrese. Si lanciò con i paracadutisti nel Sinai del ’56, poi rientrò in aeronautica chiedendo una seconda possibilità. Gliela negarono ancora, assegnandolo agli elicotteri. Giora bussò allora alla porta di Ezer Weizman, comandante dell’IAF, con l’ostinazione di chi sente il destino fischiare nei timpani. La risposta passerà ai posteri: «Fai le valigie e vai in squadriglia: non voglio sentirti più». Poco dopo, a bordo di un Mirage‑III, gli aeroplani non furono più soltanto una linea d’orizzonte.

L’alba del Mirage

Durante la Guerra dei Sei Giorni abbatté il primo Sukhoi‑7 egiziano. Ma fu tra il 1969 e il 1973 che la sua silhouette si saldò alla mitologia dell’aria: quindici jet e un Mi‑8 disegnati a gesso sulla fusoliera, quattro MiG‑21 in un unico, mozzafiato inseguimento sul Canale di Suez. Nei giorni più bui di Yom Kippur, quando la radio gracchiava richieste d’aiuto e il carburante colava via come sabbia fra le dita, persino restare in quota diventava atto di fede. Giora volava «finché l’ultimo proiettile, finché l’ultima goccia», raccontano i registri di bordo. 

“Hawkeye”, il sesto senso

Lo chiamavano Enei netz – Occhio di Falco – perché avvistava un punto nero contro l’azzurro a quaranta chilometri di distanza, quando gli altri vedevano soltanto il sole tremolare. Nessuna paura, diceva di sé; solo quiete e calcolo. Eppure, dietro la visiera affumicata, c’erano il sorriso schivo di un kibbutznik e la compostezza di chi aveva assorbito in famiglia il racconto dell’esilio e della rinascita. Per quelle doti e per le dodici vittorie in un’unica guerra, nel 1973 ricevette la Medaglia al Valore dell’IDF. 

L’uomo dopo il boato

Terminati i conflitti, comandò le squadriglie 117 e 105, accumulò 9 000 sortite e 5 000 ore di volo, poi passò ai cieli civili di El Al con la stessa umiltà con cui, a terra, coltivava alberi da frutto in giardino. A Ramat Ha‑Sharon, con la moglie Sarah – ex ufficiale operativa della sua unità – allevò tre figli e, più tardi, nipoti affascinati dal nonno che aveva visto il mondo capovolto dalle nubi. Ancora ottantenne, si faceva trovare alle manifestazioni dei veterani, sobrio come un militare in servizio, a ricordare che il coraggio non decade con la pensione.

L’ultima planata

Il 19 luglio 2025, a 87 anni, l’“asso degli assi” si è spento con la discrezione di un motore che smette di rullare alla fine di una missione. Sulla pista della sua vita restano l’odore d’olio bruciato e l’eco di un sogno che – dalla Polonia in fiamme alle piste polverose del deserto – non cessò mai di salire.

Chi lo ricorda racconta che, dopo ogni atterraggio, prima ancora di slacciare l’imbragatura, stendeva la mano sul muso del velivolo come a ringraziarlo. Quel gesto – metà rito, metà carezza – dice più di tutte le medaglie: in Giora Even Epstein convivevano la ferocia del falco e la gratitudine dell’uomo che sa di aver rubato al destino un secondo giro d’orizzonte. E oggi, mentre le bandiere s’inclinano al passaggio del suo feretro, gli stessi cieli che un tempo tremavano al suo sibilo sembrano piegarsi in silenziosa cabrata, salutando l’aquila che finalmente torna al nido.