di Marina Gersony
L’ex ostaggio, liberato l’8 febbraio, in un’intervista di un’ora al canale Keshet 12 ha raccontato i dettagli della sua lunga prigionia nei tunnel di Gaza, affamato, incatenato, picchiato. E non lo fa per sé, ma per chi è ancora là sotto, intrappolato nell’oscurità. Lo fa per il suo giovane amico Alon Ohel e per tutti gli ostaggi ancora intrappolati. «Nessuno, nessuno, là sotto deve essere lasciato indietro. Nessuno va dimenticato».
Occhi sempre più puntati su Israele e Medio Oriente, epicentro di eventi epocali che stanno scuotendo il mondo e plasmando il nostro futuro. L’ultimo grido di dolore arriva attraverso le parole di Eli Sharabi, 53 anni, l’ostaggio liberato il mese scorso dopo 491 giorni di prigionia. Incatenato nelle viscere di Gaza, affamato fino a sentire lo stomaco svanire, torturato fino a perdere conoscenza. Ogni giorno una lotta per sopravvivere, ogni notte sospeso tra la paura e la speranza. Ma l’inferno non è stato quello trascorso sotto terra, inghiottito dal buio: il vero inferno lo aspettava al suo ritorno. Quando ha riabbracciato la libertà, Eli ha scoperto la tragedia più grande: sua moglie Lianne e le loro due figlie, Noiya e Yahel, non c’erano più. Uccise il giorno stesso in cui lui era stato rapito.
Oggi, con il volto smagrito ed emaciato dopo aver perso oltre trenta chili durante la prigionia, Eli sceglie di raccontare; racconta con la voce spezzata ma con la dignità, il coraggio e la volontà intatti. E non lo fa per sé, ma per chi è ancora là sotto, intrappolato nell’oscurità. Lo fa per il suo giovane amico Alon Ohel e per tutti gli ostaggi ancora intrappolati. Parlando con Ilana Dayan nel programma Uvda (Keshet 12), rompe il silenzio e trasforma la sua tragedia in un grido potente che lascia senza fiato: «Nessuno, nessuno, là sotto deve essere lasciato indietro. Nessuno va dimenticato».
«Ricordo ogni minuto nel tunnel e quello che dicevamo: forse oggi, forse oggi. Un ragazzo che ho incontrato 14 mesi fa, dopo 50 giorni a Gaza, è ancora lì», ha spiegato riferendosi al 24enne Alon, con cui è diventato amico durante la prigionia. «Il giorno in cui me ne sono andato, i terroristi mi hanno strappato via da lui. Lui si rifiutava di lasciarmi andare, mi teneva stretto. È stato un momento molto duro». «Ha detto che era felice per me. Gli ho promesso che non l’avrei lasciato lì, che avrei combattuto per lui».
Il senso di colpa del sopravvissuto
Ma in tutta questa vicenda, un peso invisibile grava su Eli: il senso di colpa del sopravvissuto. Perché lui è vivo e loro no? Una domanda insopportabile, che accompagna molti superstiti di tragedie simili. La sua battaglia non è dunque finita con la liberazione. Ogni testimonianza che rilascia, ogni sguardo rivolto alle foto delle sue figlie, ogni notte in cui il silenzio si fa assordante, è un altro capitolo della sua resistenza. Non solo per chi è ancora là sotto, ma anche per sé stesso, nel difficile cammino verso un senso, qualsiasi esso sia, dopo l’orrore. Colpiscono le sue dichiarazioni sulla religione, che rivelano il profondo percorso spirituale che ha attraversato. Secondo le cronache infatti, pur non essendo mai stato un uomo religioso, durante la prigionia ha trovato conforto nella preghiera: «Non sono un uomo di fede, ma dal giorno del mio rapimento, ogni mattina recitavo lo Shema Israel. Non lo avevo mai fatto prima in vita mia» – ha raccontato con emozione – «La forza della fede è straordinaria. Sentivo che qualcuno vegliava su di me».
Una storia crudele iniziata il 7 ottobre
Il calvario di Sharabi inizia il 7 ottobre 2023, in una giornata che avrebbe dovuto essere come tante altre nel kibbutz Be’eri; una giornata come tante che si è trasformata in un incubo. Durante l’attacco sferrato da Hamas, Eli viene rapito e portato nella Striscia di Gaza, mentre sua moglie Lianne e le loro due figlie, Noiya e Yahel, vengono brutalmente uccise. Da quel momento inizia la sua prigionia, caratterizzata da sofferenze inimmaginabili e privazioni. Durante l’intervista, Sharabi rivela episodi scioccanti su quei mesi trascorsi in condizioni estreme.
Catene alle caviglie e una ciotola di pasta al giorno
Nei primi 52 giorni, Eli è tenuto in un appartamento, per poi essere trasferito nei tunnel sotterranei di Gaza, dove rimane per oltre un anno. Le catene alle caviglie non gli vengono mai rimosse, causando ferite dolorose: «Alcuni venivano incatenati solo per un certo periodo. Io lo sono stato per un anno e quattro mesi. Le catene erano pesanti e mi laceravano la pelle. Inoltre hai le mani legate dietro la schiena, quindi le spalle ti fanno davvero, davvero male, e nessuna posizione è abbastanza buona. Ci sono momenti in cui semplicemente svieni, perdi conoscenza. Ti svegli dopo due o tre ore e il dolore continua».
La fame è una compagna costante; riceve una sola ciotola di pasta al giorno, circa un decimo del fabbisogno calorico giornaliero: «Se succede per uno o due giorni, va bene. Ma per sei mesi abbiamo mangiato queste quantità. Sei mesi, giorno dopo giorno. Quando chiedi qualcosa in più, e all’improvviso qualcuno ti lancia qualcosa, ti sembra il miglior pasto del mondo […]. Senti che l’intestino è attaccato alla colonna vertebrale, ma a un certo punto vedi che in realtà si ritira verso l’interno, e non riesci a credere che sia questo che sta succedendo al tuo corpo». La crudeltà dei carcerieri non si ferma qui. Si manifesta anche attraverso inganni psicologici: gli fanno credere che avrebbe rivisto la sua famiglia una volta tornato in Israele, ignaro del tragico destino di sua moglie e delle sue figlie.
Il presidente USA vuole incontrare Eli
La testimonianza di Eli ha scosso profondamente l’opinione pubblica israeliana e internazionale, portando alla luce le atrocità commesse durante la sua prigionia. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, colpito dalla sua storia, ha invitato Eli alla Casa Bianca per esprimergli solidarietà e sensibilizzare sul dramma degli ostaggi ancora detenuti a Gaza. L’incontro è previsto per martedì prossimo, come confermato dal fratello di Eli.