A Edith Bruck il premio Strega Giovani 2021. L’intervista esclusiva a Mosaico: «Basta poco per riaccendere la speranza»

E’ “Il pane perduto” di Edith Bruck, edito da La nave di Teseo ad aver vinto la sezione di uno dei premi letterari italiani più importanti. A selezionare il Premio Strega Giovani, una giuria internazionale composta da circa 600 studenti di scuole superiori.

Qui la scrittrice ungherese, sopravvissuta alla Shoah ci racconta il suo tentativo di ricostruire una vita dopo l’orrore assoluto, anni di pellegrinaggio e l’approdo definitivo in Italia, in un mondo estraneo e troppo spesso incapace di capire e meno che mai di ascoltare. Cosa fare dunque con la propria salvezza? Basterà una spiazzante lettera finale a Dio mostrandogli i propri dubbi e le proprie speranze? Il compito di tenere viva la memoria che si è assunta Bruck non è certamente facile, ma la spinta di tramandare alle generazioni future l’accaduto è rimasta salda e intatta. Ma soprattutto lodevole.

L’intervista esclusiva di Mosaico-Bet Magazine del febbraio 2021. nostra intervista esclusiva. Il 20 febbraio, Edith Bruck ha ricevuto la visita di Papa Francesco

di David Zebuloni

Edith Bruck con Papa Francesco che le ha fatto visita nella sua casa (Vatican Media)

Al termine di un mese impegnativo come quello appena vissuto, Edith Bruck confessa di essere molto stanca, di aver parlato molto. Forse troppo. Quando le ho chiesto come stesse, mi ha risposto con un sorriso: «Faticosamente bene», ha detto. «Il 27 di gennaio non è più il Giorno della Memoria – ha sussurrato. – Il 27 di gennaio è l’invasione della Memoria. Io quasi preferisco il ricordo in Israele, dove si rispetta solo un minuto di silenzio. Un minuto nel quale il mondo sembra fermarsi». Nonostante la stanchezza, nonostante l’età, Edith non si tira mai indietro di fronte al dolore del ricordo. Deportata ad Auschwitz-Birkenau e poi in altri campi di sterminio tedeschi, Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt e, infine, Bergen-Belsen, dove verrà liberata, insieme alla sorella, nell’aprile del 1945, Edith Bruck è una degli ultimi testimoni della Shoah in Italia.

Nata e cresciuta in Ungheria, il suo arrivo a Roma è stato del tutto casuale. Poco dopo la fine della guerra, infatti, la sua intenzione era quella di spostarsi in Argentina, dove l’aspettava la sorella. Per mancanza di soldi, tuttavia, ha dovuto rimandare il viaggio, scoprendo così nell’Italia una nuova casa. O forse, un rifugio. «L’Italia mi è sembrata da subito un luogo sorridente, accogliente, vibrante di vita», racconta. Tre anni dopo il suo arrivo, Edith aveva già pubblicato il suo primo libro in lingua italiana. Una lingua che all’epoca non parlava bene, ma che le offriva quel distacco emotivo necessario per raccontare la grande tragedia vissuta. Da allora non ha mai smesso di scrivere e di raccontare. Nonostante l’orrore della storia marchiata sul braccio, Edith non ha mai smesso di cercare i punti di luce nel buio del lager e della vita. «Mia madre mi ha insegnato la sensibilità e la moralità», racconta. E oggi è lei ad insegnarci la sensibilità e la moralità, la speranza e la forza, affinché ciò che ha vissuto non si ripeta.

Signora Bruck, mi aiuterebbe a definire la parola Memoria?
La Memoria è vita. La Memoria è l’esistenza. La Memoria è tutto.

La Memoria talvolta si riassume in un’immagine. Qual è l’immagine più forte che conserva del lager?
A Bergen-Belsen ho visto il campo ricoperto di cadaveri. Ecco, forse quell’immagine mi ha segnato più delle altre, ma non è l’unica. Il distacco da mia madre è un momento indimenticabile, me lo ricordo come se lo vivessi al presente.

Una volta ha raccontato che un soldato ad Auschwitz le lasciò un po’ di marmellata da grattare in fondo ad una gavetta. Disse che quella marmellata fu per lei un miracolo, come una manna dal cielo.
Quella marmellata fu la bontà, la speranza, la vita, la luce. E il gesto del soldato invece fu inatteso, impossibile, inimmaginabile e mi diede la forza di andare avanti. Mi permise di capire che non tutto era ancora andato perduto. A volte basta poco per riaccendere la speranza, anche solo uno sguardo umano. Ad Auschwitz un cuoco mi chiese come mi chiamassi. Io non avevo un nome nel lager, solo un numero: 11152. Quella domanda mi fece sentire per un istante di nuovo viva.

Lei ha raccontato anche che all’entrata delle docce c’erano dei ragazzi che vi osservavano nude, con disprezzo, e vi sputavano addosso. Disse che quegli sputi facevano più male delle botte.
Erano dei ragazzi della hitlerjugend, avranno avuto quindici anni, non di più. Ricordo che raccoglievano la saliva, miravano sul sesso, la parte più intima del nostro corpo, e ci sputavano addosso. Però io non mi vergognavo di loro. Mi sono ritrovata nuda molte volte di fronte ai tedeschi, ma non mi sono mai vergognata. Forse perché non riconoscevo in loro nulla di umano. Quando invece sono arrivati gli americani e ci hanno spogliate per visitarci, mi sono vergognata moltissimo.

Perché li considerava esseri umani?
Esattamente, i primi che avevo incontrato in quel luogo.

Oggi cosa ricorda maggiormente dei lager: il buio o la luce? Gli sputi o la marmellata?
Il buio. Perché l’esperienza del lager ha segnato tutta la mia vita, ha condizionato tutti i miei rapporti. Io dico sempre di essere incinta di Auschwitz, perché Auschwitz vive ancora in me. Eppure non dimentico mai i punti di luce, ne basta uno per riaccendere in me la speranza. Per questo motivo io credo di essere uscita da Auschwitz migliore di come ci sono entrata.

Cosa significa?
Significa che dopo Auschwitz non si può essere razzisti, non si può discriminare nessuno, non si può odiare nessuno. Mai, per nessun motivo.

Nell’era del revisionismo, non teme che questa frase possa essere fraintesa? Non teme che chi l’ascolta possa dedurre che l’esperienza dei lager sia stata in qualche modo formativa?
No, non si può fraintendere. Io dico di essere uscita da Auschwitz migliore di come ci sono entrata, perché ora riesco a vedere ciò che prima non riuscivo a vedere. Perché io, che sono stata il nulla, ora posso vivere con la consapevolezza che mai odierò come chi mi ha odiata.

Crede che la storia si ripeterà? L’uomo non ha imparato dai suoi errori?
Mia madre diceva sempre che l’uomo è un albero storto che non si può raddrizzare. Aveva ragione lei, l’uomo non impara mai.

E cosa ne rimarrà del ricordo di ciò che è stato?
Un ricordo appiattito, perché mancherà la voce di chi la storia l’ha vissuta. Lentamente rimarranno solo i musei, ma i musei si guardano soltanto. Vero? Non hanno voce. Ecco, io credo solo nella voce.

A proposito della voce, il suo primo libro risale al 1959, pochi anni dopo la fine della guerra. A differenza di molti altri testimoni, lei preferì da subito la parola al silenzio. Perché?
Perché non riuscivo a sopportare il peso del silenzio. Nessuno ci voleva ascoltare dopo la guerra e io ho trovato in questo rifiuto uno stimolo a raccontare, a scrivere. Vedi, la carta sopporta tutto. Ecco, scrivendo ho finalmente sentito di poter tirare fuori, di vomitare un pezzo della mia storia. Poi ho capito che non tutto può essere raccontato. Io ho visto dei bambini congelati per terra in un magazzino ad Auschwitz, ma come posso raccontarlo? Ho visto dei nazisti giocare a pallone con la testa di un bambino, ma come faccio a raccontarlo? Non posso. È una cosa talmente mostruosa che nemmeno cento libri possono esprimere ciò che ho visto. Ho raccontato dunque ciò che potevo, il resto mi rimane dentro: l’indegnità civile, la mia mamma bruciata, il mio papà morto di fame. Tutto.

Eppure ha deciso di diventare scrittrice, ovvero di vivere e rivivere il dolore della sua storia attraverso le pagine di un libro. Non ha mai cercato un rifugio da questo dolore?
Non esiste rifugio al dolore. I libri sono in qualche misura una terapia per me, perché mi permettono di esprimermi, di trasmettere ciò che ho vissuto e che ancora vivo. Di risvegliare le coscienze di chi mi legge. E poi il mio è un dovere morale, oltre che una missione, perché ho giurato di fare tutto il possibile per dar voce a chi non ce l’ha fatta. A chi è morto ad Auschwitz.

 

 

Dopo la liberazione, la ricerca di una nuova “casa”

Edith e l’incubo di perdere tutto, di nuovo

Dopo la guerra, Edith Steinschreiber tornò in Ungheria, poi si trasferì per un periodo in Israele dove si sposò e prese il cognome Bruck; infine arrivò in Italia. Ma ha mai temuto di diventare una nomade? Di non riuscire a trovare un luogo in cui sentirsi veramente a casa? «Sì, specie dopo aver lasciato Israele, luogo in cui speravo di vivere per sempre, come avrebbe tanto voluto la mia mamma. Lei mi nutriva con il sogno di Israele, dicendomi sempre che un giorno saremmo tornati nella nostra terra e che lì avremmo trovato la felicità. Sono arrivata in Israele nel 1948, sperando di trovare il paradiso di mia madre, ma ho presto capito che quello era un periodo troppo difficile per il paese in cui mi trovavo. Eravamo entrambi dei neonati, Israele ed io. Avevamo bisogno entrambi delle stesse cose: di essere sostenuti, di essere amati, di essere difesi».
Della condizione di precarietà resta ad Edith un’altra paura: «L’idea di essere sfrattata. Una volta volevano alzarci l’affitto della casa e io mi sono messa a piangere come se ci stessero cacciando via dal paese. Mio marito (il poeta e regista Nelo Risi, ndr) non capiva la mia reazione, non capiva il mio trauma. Non capiva che io appartengo ad un’altra specie, che sono diversa».
«Io penso ogni giorno alla morte. Ho visto i morti, ho dormito con i morti e oggi capisco che la morte faccia parte della vita. Confesso però che ho più paura dei vivi che dei morti. Tu hai un bel sorriso, ma a me basta uno sguardo storto per sentirmi male. Bisogna essere cauti con noi sopravvissuti, molto cauti».