Dal Palmach al Quirinale, vita e avventure di Arrigo, che la sa lunga

di Fiona Diwan

Il presidente Napolitano, Maria Pia Fanfani e Arrigo Levi

L’ufficio di Arrigo Levi è al Quirinale, a soli 80 metri da quello di Giorgio Napolitano. Levi e il Presidente si conoscono da più di 40 anni. Tra loro esiste un rapporto di amicizia lungo una vita («ma io ero più sul versante repubblicano-socialdemocratico e con i comunisti non avevo molto in comune, a parte l’antifascismo», spiega); più o meno la stessa fraternità di esperienze storiche, lo stesso humus generazionale che lo legava a Carlo Azeglio Ciampi, di cui era, anche in quel caso, il braccio destro. Perché Arrigo Levi non solo è consigliere di Presidenti della Repubblica italiani ma è anche l’ultimo grande maestro del giornalismo italiano. A 86 anni, nato nel 1926 da una famiglia ebraica di Modena, una vita avventurosa più di Bertoldo in Francia, dall’Argentina a Israele, da Londra all’Italia, Levi non perde un colpo, lo sguardo vigile e attento, l’eloquio diretto, ironico e spumeggiante. Un’eleganza cosmopolita d’altri tempi, un garbo espressivo unito un acume di sguardo che ancora oggi ne fanno un unicum nel panorama giornalistico italiano.

Fuggito in Argentina con la famiglia per eludere le Leggi razziali, ha poi combattuto, nel 1948, nella Guerra di Indipendenza in Israele, partecipando alle azioni militari della Seconda Compagnia della Brigata del Neghev di stanza a Beer Sheva. Tornato in Italia, andrà a formarsi a Londra, diventando prima direttore de La Stampa di Torino e poi leggendario conduttore-autore di TV Sette, un format televisivo, all’epoca una novità assoluta per la Rai e che ha fatto storia.

Come hai vissuto la guerra, la persecuzione e l’antisemitismo?

«Il tema è eterno, così come è eterna la vitalità dell’antisemitismo. Nel 1938 avevo 12 anni e mio padre era un avvocato antifascista. Tuttavia, le Leggi razziali furono un vero choc, la svolta antisemita del fascismo fu un fulmine a ciel sereno. L’antisemitismo era totalmente assente dal nostro orizzonte di allora. Personalmente sono stato fortunato, non ho mai patito episodi dolorosi. Non si può dire lo stesso per mio padre e mio nonno: quest’ultimo, addirittura, dovette scegliere, nel 1858, tra lo Stato estense e la conversione al cattolicesimo, e si rifugiò a Bologna, nello Stato Pontificio, più tollerante rispetto al governo dei d’Este; senza contare che il piccolo Edgardo Mortara, rapito dalla Chiesa, era nostro parente. La mia generazione, a partire dal dopoguerra, non ha più vissuto antisemitismo.

Negare la Shoah: è giusto rendere reato il negazionismo con una legge ad hoc?

Sono contrario a forme di penalizzazione delle opinioni o al fatto che la Legge intervenga in materia. Come giornalista, ritengo che il gioco delle opinioni e la libertà espressiva siano componenti essenziali della vita democratica. Il negazionismo si combatte con l’educazione alla memoria, nelle scuole. Ma credo che la situazione sia molto diversa da un Paese all’altro. In Italia non siamo ancora, in fatto di negazionismo, ai livelli della Francia.

Ritieni che l’antisionismo sia oggi la nuova maschera dell’antisemitismo?

Il confine è labile, difficile da stabilire. Il mondo ebraico è da sempre iper-sensibile alle critiche allo stato di Israele. Tuttavia, oggi, nessuno può avere dubbi sulla validità della scelta sionista. Israele vale la pena, sempre e comunque, anche in presenza del più feroce antisemitismo. E se, per l’esistenza di Israele, questo è il prezzo da pagare, allora lo pago volentieri, anche se è salato. La fondazione dello stato ebraico è stata una risposta a due millenni di antisemitismo e questo non va dimenticato. E scaturisce dalla consapevolezza di forti elementi antigiudaici, presenti in tutti i tempi e in tutto il mondo occidentale.

Nel tuo libro “Un paese non basta” (Il Mulino), scrivevi che “se non nasce la pace non è certo colpa degli israeliani ma della cecità araba e palestinese”. Sei ancora d’accordo?

Vedo oggi una enorme cecità, da entrambe le parti. Certo, se i Paesi arabi avessero accettato, nel novembre del 1947, il verdetto dell’Onu, non saremmo qui a parlarne e sarebbe stato meglio per tutti.

L’Onu ha votato la Palestina “Stato osservatore” dell’Onu. La cosa è, secondo te, un passo avanti per la pace?

Il riconoscimento dell’Onu era inevitabile, prima o poi doveva accadere, specie perché ormai tutto il mondo riconosce l’entità chiamata Palestina. E poi  si tratta comunque uno Stato osservatore, con poteri molto limitati. Sono d’accordo con Obama, non è un passo avanti, specie a causa della reazione di Netanyahu di dar corso alla costruzione di tremila alloggi in Cisgiordania. Ho sempre pensato che nessuno, meglio degli ebrei potesse capire i palestinesi e la loro condizione raminga. E del resto, Israele è stato il primo a riconoscere la necessità dei due Stati, e questa è la base del negoziato. Non capisco, né mi spiego, il perché di questo atteggiamento negativo di Israele verso il riconoscimento Onu. Anche Hamas, secondo me, viene indebolito da questo passo, mentre invece si rafforza la parte più moderata dei palestinesi. Ma la verità è che, anche quel mondo, oggi è in gran confusione, troppe spinte contraddittorie lo animano. Ma oggi non mi farei grandi illusioni: anche noi ci eravamo cullati nel sogno, nel 1948, di aver vinto la pace. Quanto ci ingannavamo! Ho partecipato alla nascita dello stato d’Israele ma non vivrò così a lungo da vedere la fine del conflitto. Oggi manca il pathos: perché è solo sull’onda di una grande emozione che si possono compiere quei salti straordinari capaci di far superare i vecchi rancori.

Tu sei un testimone del tuo tempo. Come hai vissuto quella storica stretta di mano, nel 1993, a Camp David, tra Rabin e Arafat?

Tutti i processi storici richiedono molto più tempo di quanto immaginiamo. Eppure, passi ne sono stati fatti, anche se ora tutto sembra stagnare. Pochi sanno, ad esempio, che quando morì Itzchak Rabin, per la prima volta, Arafat andò di nascosto in Israele per fare personalmente le condoglianze a Leah Rabin. E poi c’è il discorso bellissimo pronunciato dal Re di Giordania sempre per la morte di Rabin… Insomma, anche nel mondo arabo qualcosa si è mosso, nel tempo. Inevitabilmente, ci sono poi momenti di stanca, dove riaffiorano vecchi atteggiamenti. Il percorso è ancora impervio e io sono diventato molto tollerante verso i tempi lunghi della Storia.

Perché è così difficile essere ebrei?

La nostra storia è sempre stata faticosa. È difficile essere ebrei perché abbiamo alle spalle duemila anni di odio anti-ebraico e non bastano pochi decenni di Europa democratica  a cancellarlo. Credere che la nascita di Israele avrebbe sradicato il vecchio mostro antisemita si è dimostrato un’illusione. Ma non era affatto ovvio che elementi di antisemitismo venissero oggi tradotti in modo così violento in questo sentimento anti-israeliano. Nel 1948, non sono diventato cittadino israeliano per puro caso. Ero pronto a viverci e ho lavorato per un po’ anche nella Tzavà. Rientrai in Italia per laurearmi e feci i preparativi per l’alyà. All’ultimo cambiai idea. Mi offrirono un lavoro alla BBC e partii per Londra, restandovi per dieci anni. All’epoca, pensavo che la nascita di Israele avrebbe fatto sparire la specificità ebraica dal mondo, che con questo stato-rifugio l’antisemitismo sarebbe scomparso e sarebbero state estirpate le sue radici profonde. Così non è stato.

Come è cambiato oggi l’ebraismo italiano? C’è un maggior senso della propria identità?

Sì, e anche molto forte. L’identità ebraica resterà sempre. Quando nacque Israele pensavamo che avrebbe fatto sparire l’ebraismo diasporico. Poi capimmo che questi aveva radici profondissime, inestirpabili. Oggi noto, ovunque, non solo in Italia, una grande vitalità ebraica. Voci, posizioni, un bel dibattito interno tra gli ebrei italiani e i suoi giornali, tutti diversi e indispensabili. Saremo anche quattro gatti ma, accidenti, siamo così vivi! Vedo nel mondo ebraico un enorme bisogno di esprimersi. Ed è molto bello possedere tante identità diverse. E avere il privilegio di appartenere a una storia così particolare: quella di sopravvivere per duemila anni senza uno stato e con, come unico compagno di viaggio, un libro, il Tanach. Il mondo Occidentale, tutta la coscienza europea, sono figli primogeniti del Tanach, e solo in seconda battuta del mondo greco. L’innovazione del cristianesimo sta nell’essere portatore del pensiero ebraico. Se credo in Dio? Forse molto più di tanti che lo pregano e lo invocano di continuo. Credo che l’idea del Dio unico sia stata una conquista etica, un momento straordinario della storia dell’umanità.