di Anna Coen
Dal Vietnam all’Africa, dai salotti di Manhattan agli ostelli di Khartuom, vita e gesta di un Ambasciatore del bene che ha affrontato guerre civili e catastrofi naturali lottando accanto agli ultimi della Terra. Una vita epica e schiva: il suo Gersony Report aiutò gli Stati Uniti a fondere i propri interessi geopolitici con i valori umanitari e il rispetto dei diritti umani. Una biografia ne celebra oggi il coraggio, il lavoro dietro le quinte e l’ideale silenzioso di Tiqqun Olam
«Una guida per riparare e sostituire la nostra immagine all’estero di “brutto americano”», titolava qualche settimana fa il Washington Post in occasione dell’uscita di The Good American. The Epic Life of Bob Gersony, the US Govern-ment’s Greatest Humanitarian, saggio biografico di Robert D. Kaplan, scrittore autorevole di molti bestseller tradotti in tutto il mondo (Random House; pp. 544; su Amazon € 23,46; formato Kindle € 10,44).
Non si contano a oggi gli elogi per questo libro che sta suscitando il favore di critica e lettori: «Il brillante e approfondito The Good American di Robert D. Kaplan non poteva arrivare in un momento più impor-tante per gli Stati Uniti. Il suo lavoro intelligente ci ricorda che la compassione per gli altri non deve avere confini», ha dichiarato il filosofo francese Bernard Henry-Lévy; un libro «per chiunque abbia smesso di credere che una persona possa fare la differenza», ha osservato a sua volta il generale James N. Mattis, ex Segretario della Difesa USA.
Chi è Bob Gersony, il consulente del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (cugino della giornalista Marina Gersony che collabora con Bet Magazine/Mosaico, ndr), che ha sempre lavorato sul campo nelle zone più pericolose e impervie del pianeta, tanto da affascinare un grande giornalista come Robert D. Kaplan e indurlo a scriverne la biografia per rendergli onore e visibilità?
Un libro che cade al momento giusto in un’America pesantemente colpita dalla pandemia, ma anche orientata a ribaltare quei cliché negativi che in parte hanno segnato la politica americana degli ultimi anni, avvelenando i pozzi della democrazia liberale e dello Stato di diritto; e per ricordarci che gli Usa sono stati anche una prima potenza mondiale, e possono essere di nuovo quel (buon) modello ispiratore di cui il mondo ha forse ancora bisogno.
LA SUA STORIA
Una figura complessa, un “cavaliere solitario” capace di fare il bene da dietro le quinte ma in grado di orientare le scelte su dove indirizzare gli interventi umanitari della politica statunitense. Robert Paul Gersony (Bob) è nato a Manhattan nel febbraio 1945, figlio di Grigori (Grisha) e Laura Gersony, profughi della Lettonia e da Vienna, sopravvissuti alla Shoah e approdati in America per rifarsi una vita. «È la storia di un uomo proveniente da una benestante famiglia ebraica di Manhattan: lasciò la scuola superiore e prestò servizio in Vietnam, dove gli fu assegnata una stella di bronzo – scrive Kaplan nell’introduzione -. Da quel momento è iniziata un’odissea lunga quarant’anni, attraversando continenti dilaniati da guerre, conflitti e calamità naturali. Non era un giornalista né un operatore umanitario. Collaborava con il governo degli Stati Uniti in una veste insolita, intervistando migliaia di profughi, esuli e sfollati, lavorando in circostanze pericolose, complesse e delicate e redigendo rapporti che avrebbero influenzato e migliorato la politica estera americana salvando innumerevoli vite. È la storia di un uomo dall’esistenza monastica e frugale, lontana dai riflettori e costantemente al servizio degli altri, a rischio della propria vita».
Kaplan incontrò Bob in un ostello a Khartoum più di trent’anni fa, incrociandolo poi in Somalia, Liberia, Etiopia, al confine Sudan-Ciad, in Nepal e in altri luoghi, nel corso di decenni: «Era ovunque ci fosse “la notizia”, e anche dove non c’era – racconta il famoso giornalista e scrittore –. Bob evitava deliberatamente la pubblicità: perciò molti di coloro che si riversano nelle zone di guerra conoscevano a malapena la sua esistenza. In un certo senso era invisibile ed era felice così. Per i media e per la comunità dei diritti umani era spesso l’uomo dimenticato».
Dopo un’infanzia e un’adolescenza agiate, abbandonati gli studi, il diciannovenne Gersony entrò nel mondo del commercio delle materie prime, dove si fece notare per zelo e perspicacia: «Mio padre mi fece fare l’apprendista presso un altro ebreo tormentato come lui, Francis J. Koppstein, che si occupava, tra l’altro, di prodotti animali e mangime per uccelli», ricorda oggi Bob Gersony. Fatto sta che il signor Koppstein si rese conto ben presto che il suo protetto, oltre a sapersi districare tra le scartoffie, possedeva una peculiare rapidità e talento per il commercio. Tuttavia, sebbene affascinante e utile, quel tipo di vita non faceva per lui, lungi dal soddisfare la sua indole schiva e solitaria, ansiosa di conoscere il mondo: «Sono stato un fallimento a scuola e il commercio di materie prime non mi bastava. Mi arruolai nell’esercito e fui mandato in Vietnam. Il mio Paese era in guerra. Sentivo di doverlo fare. Presi coraggio, anche se avevo paura. In che cosa mi ero cacciato?». Fu il Vietnam a cambiare la sua vita, l’ultimo posto sulla terra in cui ci si sarebbe aspettati di trovare un giovane ebreo cresciuto in un elegante appartamento di Manhattan, sulla West 77th Street, di fronte all’American Museum of Natural History, stessa casa in cui un giorno avrebbe vissuto la star dell’Opera Renée Fleming.
DAL GUATEMALA AL MOZAMBICO
Da quel momento il passo verso altre zone disastrate del pianeta fu breve: a metà degli anni Settanta, Gersony si sposta in Guatemala, dove avvia un centro nazionale per lo studio delle lingue Maya e una rete di scuole di spagnolo per stranieri come lui. Quando il terribile terremoto del 1976 uccide 23mila persone distruggendo e danneggiando ponti, tralicci, pali della luce, telefoni e strade, Gersony organizza la fornitura di lastre per coperture metalliche facendole partire da El Salvador, in modo da aiutare i poveri guatemaltechi a ricostruire le case crolla-te. Non solo: durante il conflitto civile di El Salvador, fa presente ai potenti policy makers americani l’urgenza di progetti utili a migliorare la vita degli sfollati dimenticati, come la costruzione di canali fognari e strade. Inizia così il suo rapporto con il governo degli Stati Uniti. Negli anni a venire sarebbe stato inviato, oltre che nei Paesi latino-americani, in Africa, Sud-Est asiatico, Balcani, Medio Oriente e Nepal.
Quarant’anni in giro per il mondo dove non arrivava anima viva, viaggiando da un campo all’altro e macinando chilometri: Malawi, Zimbabwe, Tanzania, Mozambico… Così Bob sviluppa competenze, raccoglie informazioni di prima mano, si avventura negli entroterra, in genere accompagnato solo da un autista locale, intervista gli ultimi della terra, vittime di violazioni dei diritti umani, ottomila persone tra rifugiati, sfollati e operatori umanitari di ogni guerra e disastro. I risultati saranno dei dettagliati resoconti dalle verità spesso scomode, come il leggendario Gersony Report.
Memorabile, tra le tante, la missione in Mozambico, Paese dilaniato dalla guerra civile. Gersony scopre come l’insurrezione Renamo (Resistência Nacional Moçambicana), in procinto di ottenere ingenti aiuti militari grazie alla Dottrina Reagan, non aveva in pratica nessun programma di governo per migliorare una realtà di uccisioni, stupri e mutilazioni su larga scala. Gersony informò il Segretario di Stato George Shultz e Maureen Reagan, figlia del Presidente: il suo rapporto fu determinante, in quanto contribuì alla decisione epocale presa dagli Stati Uniti di rifiutare all’istante gli aiuti a Renamo, ponendo così le basi per la fine definitiva della guerra civile e salvando probabilmente centinaia di migliaia di vite.
IL METODO GERSONY
Aveva un modo tutto suo di lavorare, un vero e proprio Metodo Gersony – come qualcuno lo ha già battezzato -. Gli era stato ispirato dalla lettura di un libro, ai tempi in cui era soldato in Vietnam (Street Without Joy: the French Debacle in Indocina): si trattava di un saggio di Bernard Fall, storico e corrispondente di guerra franco-americano di origine austriaca, anche lui figlio di sopravvissuti alla Shoah; un libro che cambiò radical-mente la visione del mondo di Bob: la ricerca della verità non poteva prescindere dal lavoro sul campo, dall’essere lì, nei luoghi veri, ovviamente armati di quintali di pazienza e da un mettersi continuamente in gioco in prima persona, lontano dalla comfort zone di una biblioteca o di un ufficio governativo a Washington. Fu così che Bob iniziò a realizzare ciò che l’America poteva fare per il mondo e ciò che invece non poteva o non doveva fare.
Racconta in proposito il biografo Kaplan: «Gersony mangiava soltanto una volta al giorno. Batteva a macchina ciascuna delle sue 8.200 interviste, fissando ogni singola testimonianza su carta. Di ogni intervistato annotava una caratteristica o una peculiarità: un gesto, un’espressione del volto, una pronuncia speciale, in modo da preservarne l’umanità e unicità. Di notte dormiva sotto una tenda, in un sacco a pelo con gli appunti sotto il cuscino e uno zampirone contro gli insetti». E ancora: «Viveva nella boscaglia per molte settimane per poi informare gli alti responsabili politici sulle sue scoperte. Era spesso solitario e depresso, ma viveva nella paura di essere promosso e di non poter più fare ciò che gli stava a cuore. Era calmo soltanto mentre intervistava e prendeva appunti. Penso a lui come a un personaggio tormentato, uscito da un romanzo di Saul Bellow, immerso nelle inquietanti e pericolose ambientazioni tropicali descritte da Joseph Conrad».
Il cuore di tenebra del pianeta continua a calamitare il suo interesse. Arrivano altri incarichi: Gersony passa così dalla Thailandia al Sudan, dal Ciad all’Honduras. I suoi compiti includono il monitoraggio degli aiuti alimentari per la Corea del Nord, la pianificazione delle catastrofi in Micronesia ma anche l’“ispezione” dell’insurrezione maoista in Nepal. A Katmandù, Gersony si augura che l’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, non molli e continui a costruire infrastrutture e strade.
L’IDENTITA’ EBRAICA
Essere ebreo aveva (e continua ad avere) un significato profondo per Bob. Come già accennato, i suoi genitori, Grigori (Grisha) e Laura Gersony, sopravvissuti alla Shoah, cambiarono i loro nomi in George e Lola una volta giunti in America. Grisha-George proveniva da Libau, una città portuale in Lettonia, dove i Gersony commerciavano in granaglie. Dopo un apprendistato ad Amsterdam presso un mercante di diamanti, aveva lavorato ad Anversa come commerciante di cereali e poi rappresentante delle Israeli Jaffa orange cooperatives nella Palestina mandataria. Intanto, per gli ebrei d’Europa, l’aria iniziava a farsi pesante. Nella primavera del 1940, Grisha-George aveva intuito che i nazisti avrebbero presto invaso il Belgio. Molti amici gli avevano dato del pazzo, poiché il Belgio era un Paese neutrale; ma il padre di Bob, Grisha, aveva capito che sarebbe stato essenziale avere un piano di fuga. Dopo aver vagato per la Francia, il Portogallo e il Mozambico, arriva in America con pochi dollari in tasca. «Mio padre era un uomo intelligente e virtuoso – ricorda oggi Bob –. È stato un commerciante di materie prime per tutta la vita». Fu così che Gregori-Grisha-George Gersony fece fortuna negli Stati Uniti dove fondò la Gersony-Strauss Co. «Era un uomo completamente assorbito dal lavoro – ricordano gli amici nel libro di Kaplan -. Non amava perdersi in chiacchiere. Era intenso, impaziente, un uomo formidabile, un duro con un cuore d’oro». La verità è che Grisha-George, come la maggior parte dei rifugiati ebrei, teneva molte cose nascoste. Sua sorella, suo fratello e altri membri della famiglia e dei loro amici erano stati tutti assassinati dai nazisti e dai loro alleati lettoni. Una sera Bob chiese al papà di parlargli di quel periodo terribile. Il padre, che stava leggendo un libro a letto, si girò su un fianco e pianse. «I miei genitori – ricorda oggi Bob – hanno dovuto sempre fare i conti con la Shoah e con un terrore che non li ha mai abbandonati». Non è dunque un caso se la sensibilità di Bob per la sofferenza, così come l’empatia verso le migliaia dei suoi intervistati, è nata dal profondo dolore vissuto dai genitori e dall’intero mondo ebraico dell’Est Europa. Alla fine, a modo suo, Bob era destinato a seguire le orme del padre: «In ogni luogo, mio padre ha dovuto imparare una nuova lingua e iniziare una nuova vita. Forse per questo mi sono messo consapevolmente alla prova, affrontando il mondo come aveva fatto lui».
Oggi Bob vive in Virginia con la moglie Cynthia (Cindy) e i tre gemelli ormai adulti. Cindy a sua volta si è occupata di cause umanitarie rischiando la vita, come quando in Nicaragua, nel 1996, fu rapita vicino al confine con l’Honduras dai guerriglieri per poi essere rilasciata. Una vicenda finita su tutti i media USA dell’epoca (Il video del rilascio è su youtube).
In definitiva, il messaggio della biografia dedicata a Bob Gersony da Kaplan risulta essere pragmatico e chiaro: gli Stati Uniti possono ancora – e con tranquillità pensare di fondere i propri interessi politici e di sicurezza con i grandi valori umanitari e i diritti civili e umani, in linea con gli ideali di democrazia. A testimoniarlo ci sono le decine di missioni di Bob Gersony, tutte tese a migliorare la vita delle persone comuni il cui destino era legato a doppio filo con gli interessi strategici USA. E questo in un clima di feroce lotta ideologica globale, come ai tempi della Guerra Fredda. Così, grazie alla penna incisiva e vibrante di Robert D. Kaplan, scopriamo oggi la vita di un uomo davvero speciale, quel good american che in silenzio, ma con estremo coraggio, con determinazione e perseveranza, ha agito per fare di questo Pianeta un luogo migliore, operando una specie di Tiqqun ‘olam per “riparare” il mondo, «perché vivere una vita significativa, alla fine, è una faccenda che riguarda la verità; non il successo».