Bernardo Caprotti, «A voi, ecco il mio dono»

di Daniel Fishman

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Bernardo Caprotti insieme a Liliana Segre durante la cerimonia di inaugurazione dell’Auditorium del Memoriale della Shoah

 

L’addetto stampa era stato laconicamente chiaro: «Il Dottore rilascia pochissime interviste. Provi a scrivere una email, ma la vedo difficile».
Qualche giorno dopo ricevo una telefonata da un numero sconosciuto, e una voce giovanile mi dice: «Sono Bernardo Caprotti, le va bene di venirmi a trovare questo giovedì?». Il resto della telefonata era per spiegare di non fidarmi del navigatore della macchina e di seguire le indicazioni che in quel momento mi stava dando. Questa attenzione al dettaglio e alla logistica l’ho poi colta anche arrivando nei suoi Uffici, a Limito. Dal parcheggio ai bagni, dalle guardie giurate alla segretaria, tutto il mondo di Esselunga sembra pensato e brieffato nei minimi particolari. Mi fanno accomodare in un salottino con dei dipinti ad olio di Canaletto fino a quando, con un certo ritardo, arriva il padrone di casa, il rivoluzionario inventore della grande distribuzione all’italiana, uno dei grandi sovrani del mondo dei supermeracati europei.
Bernardo Caprotti è dell’ottobre del 1925, coetaneo di mio padre, tutti e due vanno all’Esselunga, solo che Caprotti ne è il proprietario.
Si scusa. «Stanotte sono andato a dormire alle undici, e già all’una, ero con i miei pensieri. Un dirigente molto bravo e stimato si è operato ed ero preoccupato. Appena ho potuto, stamane all’alba sono andato a trovarlo in ospedale. Mi scusi».
Gli avevo già esposto il motivo dell’incontro. Ero curioso di conoscere questo grande imprenditore (e chi non lo sarebbe?), ma anche di scoprire le ragioni che lo hanno portato a fare una sostanziosa donazione al Memoriale della Shoah di Milano, alla Stazione Centrale, e a creare le “Tzedakard”: (Carte-spesa prepagate che vengono consegnate alle famiglie in difficoltà economica), per la Comunità ebraica di Milano.
«Non ci sono particolari misteri. Sono abbastanza vecchio da avere vissuto le esperienze drammatiche del secolo scorso. Una lunga vita ti permette di avere una visione profonda, è come riuscire a chinarsi e a guardare nel buio in fondo ad un pozzo. La mia storia famigliare è per metà francese alsaziana, basata sul cotone, un ambito nel quale lavoravano molti ebrei. Mi ricordo di alcuni di loro che mi tenevano sulle ginocchia da piccolo, e tanti amici, fornitori, clienti. E poi la pazzia della guerra, ma anche dei parenti che in qualità di ufficiali delle forze armate francesi furono prigionieri in Germania. Alcuni li perdemmo a lungo di vista ed altri li perdemmo per sempre», racconta Caprotti.
«Non rividi più neanche il mio primo grande amore, il mio primo flirt, come si diceva allora. Una Finzi, carina, anzi bellissima, bionda, occhi verdi. Non posso non avere ammirazione per gli ebrei, per tutto ciò che hanno dato all’umanità. Basti pensare al loro contributo alla musica. In questi anni ho poi avuto modo di conoscere una grande persona, una donna come Liliana Segre».

 

foto2L’ammirazione per gli ebrei non spiega però del tutto la scelta del “perché dare?”. «Perché mi sembra una giusta testimonianza del sentimento che prima le ho voluto raccontare», risponde il patron di Esselunga. Dare ma anche guadagnare. Lei lavora con questo obiettivo, oppure per il piacere di produrre e realizzare, oppure lo fa per abitudine?
«Effettivamente potrebbe anche essere diventato oramai un’abitudine. Di per sé non sarebbe una cosa sbagliata, purché io riesca anche a coltivare un poco anche i miei interessi. Ma il mio vero hobby è andare a vedere i miei negozi e provare la soddisfazione che ho fatto la cosa giusta, e magari proprio come la volevo io. Anche se devo sottolineare il ruolo della mia squadra. Dei grandi direttori commerciali, architetti e ingegneri. Io ho la capacità di fare sintesi. Diciamo che son più bravo di altri come direttore d’orchestra».
È dunque veritiera la fama che ha di controllare continuamente le sue realtà. Entra anche nei punti vendita della concorrenza, oppure lo fa di nascosto?
«Non solo vado a verificare la concorrenza ma lo faccio sempre apertamente indossando il mio badge. (nota: aveva il badge sulla giacca durante l’intervista). Lo mettono i miei dipendenti e collaboratori perché io non dovrei?».
Lei sembra una persona molto concreta. Si fa mai le grandi domande della vita? Non ha mai dei dubbi?
«Nella realtà posso apparire molto concreto, quasi un praticone ma in verità sono stato sempre un sognatore che ha rincorso, ogni volta, un sogno-progetto diverso. Alcuni li ho realizzati ed altri no».
Ha un mito, una persona di riferimento, dei modelli? E lei pensa di essere un modello per altri?
«Non mi piace pensare di essere un modello per nessuno. A mia volta citerei il modello di Watson, il fondatore di IBM. E poi, mio padre anche lui sognatore e amante di arte e architettura».
Ha senso per un imprenditore come lei avere la pretesa di fare educazione alimentare oppure in fondo è giusto che la gente mangi quello che vuole?
«Offrire di tutto è un nostro compito. Tutto deve essere al top della freschezza e con buona conservazione. Non posso rifiutare i nuovi modi di nutrirsi anche se Esselunga serve a difendere la tradizione della cucina italiana. Si tratta di una cultura che si è sviluppata nei secoli. Ma ora la gente viaggia, si apre, si internazionalizza. Da me trova per esempio l’ottima Feta o lo yogurt greco. Ma parimenti il nostro pesto è diventato un prodotto internazionale. È normale, e non ci vedo niente di male. E non mi faccio abbagliare dalla falsa filosofia del chilometro zero».
Tanti produttori vorrebbero essere presenti sui vostri scaffali. C’è un prodotto che rifiuterebbe? «La carne di cavallo», risponde. (nota: gli spiego allora perché e quando nel Medio Evo è nato il tabù su questa carne; Caprotti ne prende nota). Per tutta l’intervista, Bernardo Caprotti parla con voce pacata, e soppesando le parole che sono evidentemente frutto di elaborazione di pensiero. Per altro, tocchiamo solo di sfuggita il tema delle Coop, quello su cui è facile che si inalberi…
Dicono che lei sia burbero. È una fama o è realtà? E se sì, non è che le piace questa parte? «Mi definirei rigoroso, qualità che in questo Paese è considerata come una forma di cattiveria. Mi sento molto libero e a volte dico cose che non devo dire. Non sono per niente diplomatico».

IMG_3751Come Abramo che accompagna i suoi ospiti fuori dalla tenda, Caprotti mi accompagna personalmente all’uscita. Le sue ultime frasi sono per i tanti problemi che assillano il pianeta. La Cina con la sua sovrappopolazione, i tassi di natalità collegati all’ignoranza, la mancanza di politiche di sviluppo del mondo e di politiche di integrazione. Ma mi racconta anche del piacere che avrebbe di girare il mondo. Lo dice con rammarico perché aggiunge «Vede, sono invece costretto a rimanere in questa prigione». Per lo meno, dottor Caprotti, lei è uno dei pochi che ha potuto costruirsi una prigione come piace a lei.