La cover del National Geographic dedicata alla questione della razza

Il National Geographic ammette il suo passato razzista: parla la prima direttrice ebrea

di Marina Gersony
Il National Geographic ha deciso di fare outing, ossia di raccontare pubblicamente di avere qualche scheletro nell’armadio: nel prossimo numero di aprile, la celebre rivista americana pubblicata in moltissimi Paesi del mondo e tradotta in altrettante lingue, sarà infatti dedicata a un unico tema, la questione della razza e i propri errori in passato. (Dal 1998 esiste anche un’edizione italiana della rivista, la National Geographic Italia, edita dal Gruppo L’Espresso con un suo sito Internet dal 2010).

La motivazione? Per anni, e per stessa ammissione della rivista, gli articoli avevano contenuti razzisti, volti a sminuire o ignorare gli afroamericani e a rappresentarli esclusivamente come danzatori folcloristici, operai,  o lavoratori domestici. Lo afferma Susan Goldberg, prima direttrice ebrea del National Geographic: «Per superare il nostro passato dobbiamo riconoscerlo. Abbiamo chiesto a uno storico di chiara fama di indagare come abbiamo rappresentato le persone di colore negli Stati Uniti e all’estero».

Con il titolo The Race Issue, il numero monotematico della rivista illustrerà in copertina le due gemelle inglesi Marcia e Millie Biggs di undici anni, una delle quali è nata nera, e l’altra bianca. La notizia, è rimbalzata sul web da un sito all’altro cogliendo tutti di sorpresa e suscitando diverse reazioni tra cui molte positive per il coraggio della rivista storica ad ammettere lo scivolone del tempo che fu.

«È doloroso condividere le storie sconvolgenti del passato relative alla rivista -, ammette Goldberg – ma quando abbiamo deciso di dedicare la nostra rivista di aprile al tema della razza, abbiamo pensato che avremmo dovuto esaminare la nostra storia prima di giudicare quella degli altri».

Una ricerca negli archivi del National Geographic

Il National Geographic ha dunque incaricato lo studioso John Edwin Mason dell’Università della Virginia, specializzato in storia della fotografia e storia dell’Africa, di esaminare gli archivi della rivista per verificarne la linea editoriale rispetto ai «non bianchi» nelle passate edizioni. Mason ha così scoperto che a dalla fondazione nel 1888 fino agli anni Sessanta, la rivista ha descritto le persone di colore negli Stati Uniti relegandole a ruoli prettamente di serie B oppure immaginandole in un altrove popolato da individui esotici, famosi e spesso svestiti, felici cacciatori e nobili selvaggi ricalcando stereotipi e luoghi comuni.

Obbiettivo dello studio commissionato, ammettere i propri errori e andare avanti rispettando tutte le persone su questo pianeta.

Dopo aver individuato diversi esempi discriminatori e razzisti dell’epoca – una fra tutte una didascalia di commento a un articolo del 1916 dedicato all’Australia in cui due aborigeni venivano descritti come «selvaggi con livelli di intelligenza più bassi di tutti gli esseri umani» ,  Mason ha tuttavia tenuto a precisare che queste descrizioni erano probabilmente dovute anche alle circostanze e al momento storico della fondazione del periodico.

«Il National Geographic è nato al culmine del colonialismo e il mondo è stato diviso tra colonizzatori e colonizzati», afferma  a sua volta la Goldberg spiegando che la rivista a suo tempo non faceva altro che riflettere una precisa visione del mondo in un preciso momento storico.

La scelta di esaminare l’emarginazione subita da una minoranza è stata presa personalmente dalla Goldebrg: «Sono il decimo direttore del National Geographic dalla sua fondazione nel 1888. E sono la prima donna e la prima persona ebrea facente parte di due gruppi che almeno una volta hanno subito discriminazioni in questa sede», scrive.
Tra gli articoli pubblicati nel numero ce n’è uno del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert che spiega perché le razze non esistono scientificamente.