Non uccidete il kibbutz!

Mondo

La crisi degli ideali collettivi.

La sala da pranzo collettiva, il chadar ochel – che nei tempi andati ospitava oltre duemila anime – è adesso adibita in parte a ristorante. La fabbrica e gli stabilimenti industriali sono abbandonati, ingrigiti, coperti di erbacce. Tre dei quattro asili-nido che erano il vanto dell’insediamento sono chiusi. Il cinema è abbandonato anch’esso. Negli appezzamenti dei datteri e delle banane, sudano oggi manovali thailandesi. I padri pionieri sono da tempo sepolti in un piccolo cimitero. I loro coetanei meno fortunati seguono lo sfacelo dalle finestre di una vicina casa di riposo.
Nella alta valle del Giordano il kibbutz di Afikim – quello che ancora negli anni Settanta era il fiore all’occhiello del Movimento dei kibbutzim – sta morendo. I servizi e gli stipendi degli ultimi membri sono già stati privatizzati. La fase terminale sarà raggiunta quando lo saranno anche i loro beni: ossia quando saranno definitivamente sepolti gli ideali collettivistici ed illuministici dei pionieri che fondarono quel Kibbutz nel 1932. “Sulle loro spalle gravavano due rivoluzioni: il sionismo e il comunismo”, rileva con ammirazione Assaf Inbari, nato ad Afikim nel 1968, che ha pubblicato un mese fa un libro ponderoso in cui ricostruisce la nascita, la crescita e l’inesorabile declino di quella comunità agricola collettiva. Il libro (A casa), ha subito destato attenzione nella stampa, anche perché è in assoluta contro-tendenza. Mentre i coetanei di Inbari recriminano contro i loro genitori (ad esempio con il film Sweet Mud di Dror Shaul, in cui viene messa alla berlina la meschinità di “idealisti” in sostanza falsi e piccolo borghesi), lo scrittore sollecita gli israeliani del XXI secolo ad inchinarsi di fronte ai pionieri che “sognarono ad occhi aperti l’organizzazione sociale più interessante del XX secolo, una delle più coraggiose della Storia umana”. “Volevano cambiare – aggiunge – la natura umana, l’inclinazione al possesso, perfino il modo di essere genitori. Per questo decisero di crescere i figli collettivamente, secondo la loro fascia di età, al di fuori dei nuclei familiari ‘borghesi’. Vedo nella storia del kibbutz elementi di tragedia. Non c’è grottesco, semmai c’è eroismo. I suoi membri conoscevano bene la natura umana, ma la sfidarono egualmente. La loro vita si svolse in tensione continua fra la realtà e l’ideale. E questo è commovente”.

Nel libro di Inbari sono descritte tre generazioni: quella “rivoluzionaria” dei pionieri; quella – spesso denigrata – dei “continuatori”; e la sua generazione, quella di chi abbandona definitivamente il kibbutz per realizzarsi e fare carriera in proprio. L’anello debole, rileva Inbari, fu la seconda. Ebbe la sfortuna di doversi accollare due incombenze: da un lato gestire il progetto impostato dai genitori e dall’altro (si era ormai nella seconda metà del Novecento) di dover combattere per l’indipendenza di Israele. “E loro andarono alla morte in massa”, precisa Inbari.

Dal libro traspare la sensazione che in fondo questi utopisti socialisteggianti erano religiosi a modo loro, pronti a morire per i loro ideali. Sono ancora significativi per l’Israele di oggi? Inbari – che è tornato di recente a vivere in un kibbutz della valle del Giordano – pensa che la risposta sia sicuramente positiva: “Se l’individualismo prevale, non abbiamo più speranza. Se non c’è niente di più importante del singolo, nessuna impresa collettiva giustifica alcun sacrificio”. L’Israele che smantella i suoi kibbutzim, insomma, crede di seppellire il passato ma in effetti si gioca il futuro.

la lotta tra ideali e realtà
La stesura del libro che ha commosso e fatto riflettere Israele, ha richiesto dieci anni. Spiega Inbari al quotidiano Haaretz: “Volevo scrivere partendo dal concetto di un ‘curatore’ che raccoglie e seleziona storie. Lo scrittore colleziona, sceglie, organizza, elabora una intera tradizione di racconti, in parte orali e in parte scritti non come letteratura, come documenti da una varietà di generi: bollettini del kibbutz, brochure di ricordo dei caduti, materiale di archivio, lettere, protocolli, racconti per bambini, storie di maestre giardiniere, libri di memorie… Ho preso tutte le leggende del posto e le ho fuse, o almeno ho tentato di fonderle, per dar vita ad una trama con un altro significato, più umano-universale. Ho tentato di innalzare il materiale dal ‘particulare’ all’universale…’’. E continua: “Io vedo la vicenda del kibbutz intrisa di senso tragico, mai grottesca o ridicola. Tragico significa eroico. Si tratta a mio parere di persone che avevano una grandezza tragica. Ci voleva grandezza per realizzare una visione così avanzata. Uno degli errori diffusi è quello di chi sostiene che i kibbutznikim non capivano la natura dell’uomo. Loro invece la comprendevano eccome, soltanto che decisero di sfidarla. Di essere bigger than life, più grandi della vita. Sfidarono il concetto di famiglia, di proprietà, di privacy, dell’ego…, furono impegnati nella lotta fra l’ideale e la realtà. Fra valori e bisogno. Quando ti prefiggi dei valori alti, sai in partenza che ci sarà tensione con la realtà”.

“Non dimentichiamoci che la vita nel kibbutz era una specie di religione. Il laicismo vero e proprio esiste solo nello stile di vita liberal-cittadino-individualistico. I membri del kibbutz, e non solo loro, santificarono i valori dell’insediamento, del lavoro della terra, del sionismo pratico – non erano ‘laici’, perché avevano dei valori per i quali sarebbero stati pronti a dare la vita. Ed è questa una delle tante definizioni della religione. In una cultura che celebra la Terra d’Israele, la lingua ebraica, la tradizione delle feste, loro sono stati gli ebrei più ‘intensi’ nella proposta di uno stile di vita. Basta guardare il loro regolamento interno. La cosa che ogni ebreo ortodosso si picca di conoscere è la halachà (regole di ortodossia). Ed è curioso che per il kibbutz, ciò che lo distingue da altri luoghi, è che è deve essere un insediamento ‘hilcati’ (basato su una ‘halachà’, su un regolamento – ndr). Una comunità che dibatteva anche di questioni assolutamente minime, sulla forchetta e sul cucchiaino. E questo è appunto l’atteggiamento ebraico, che non ha eguale in altre culture. Il kibbutz è stato l’espressione dell’ebraismo nel XX secolo. Questa è la ragione per cui avevo bisogno di raccontarne la storia da ebreo…, secondo il precetto Ve-Higadta le-banecha, (E hai insegnato a tuo figlio…). Per certi versi, il mio, è un libro religioso’’.