L’Europa, Israele, i media: un rapporto complicato

Mondo

di Laura Brazzo

Benjamin Netanyahu nei giorni scorsi è stato a Parigi per la commemorazione delle vittime della strage di Tolosa di un anno fa. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quei giorni (il 2 novembre, per la precisione) “Le Monde” è uscito con un editoriale molto duro, quasi un atto di accusa nei confronti dell’Europa, a suo dire troppo morbida e condiscendente con Israele e la politica degli insediamenti. Una condiscendenza che, secondo il quotidiano francese si esprime non tanto nelle dichiarazioni, ma nei fatti. In che modo? Importando grandi quantità di prodotti agricoli e industriali provenienti dagli insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Questo almeno è quanto sostiene il recente rapporto stilato da una commissione di 22 associazioni intergovernamentali europee, le cui conclusioni sono riportate, appunto, nell’editoriale di due giorni fa.

Questo sostegno dell’UE a Israele, secondo il rapporto (e “Le Monde”), rappresenta l’abbandono da parte dell’Europa dei principi espressi nel 1980 a Venezia con la Dichiarazione comune sul Medio Oriente – una delle prime prese di posizione della Comunità Europea in tema di politica estera.

Quel documento – che “Le Monde” oggi definisce “coraggioso e visionario” (usando le stesse parole di un articolo del NYT di due anni fa),  e che all’epoca il primo ministro israeliano Menachem Begin, bollò come l’anticamera di una nuova Monaco – ammetteva l’OLP al tavolo dei negoziati di pace,  riconosceva ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione, e definiva gli insediamenti “un serio ostacolo alle trattative di pace”. Ed è proprio quest’ultimo il punto su cui “Le Monde”, riportando le conclusioni del rapporto europeo, indirettamente attacca Bruxelles accusandola di essersi arresa ad Israele. L’editoriale riporta infatti quella parte del rapporto in cui, secondo la linea ufficiale di Bruxelles, gli insediamenti israeliani vengono definiti “illegali rispetto al diritto internazionale”, “un ostacolo all’instaurazione della pace”; e tali da rischiare di “di rendere impossibile una soluzione fondata sulla coesistenza di due stati“.
Ma, commenta “Le Monde”, sono tutte “parole vane”: i dati del rapporto europeo dicono che “l’Europa partecipa di fatto allo sviluppo degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Essa facilita il controllo di circa il 40% di questo territorio da parte di Israele. Essa è complice del rafforzamento continuo della presenza israeliana che impedisce la ripresa di un negoziato serio tra le due parti”.

L’editoriale si chiude con un commento: “L’Europa appoggia questo pericoloso fenomeno che è la banalizzazione completa del movimento di colonizzazione in atto. Esso non suscita altro che condanne formali da parte dell’Europa e degli USA; come se avessimo sepolto la speranza di uno stato palestinese”.
Secondo il quotidiano diretto da Erik Izraelewicz, dunque, la responsabilità dello stallo dei negoziati e il dissolversi stesso della speranza di veder nascere uno Stato palestinese, è di Israele e con esso dell’Europa, che con la sua politica economica sostiene di fatto la politica israeliana degli insediamenti. Tirando le somme, qualcuno potrebbe anche leggere questo commento come un velato appello all’Europa per il boicottaggio economico di Israele…

All’editoriale di “Le Monde”, si contrapponeva, sempre il 2 novembre,  un breve articolo del “Wall Street Journal”. Anche questo come il primo, privo di firma; il tema invece era diverso: riguardava Israele bersaglio pressocchè quotidiano dei razzi lanciati da  Gaza: “Lunedì i terroristi palestinesi che operano nella Striscia di Gaza hanno sparato 21 razzi e colpi di mortaio su Israele. Che sono seguiti alla raffica di 77 granate della settimana scorsa, in cui sono rimasti in cui gravemente feriti due civili, mentre migliaia di persone sono state costrette a ripararsi nei rifugi antiaerei. Dall’inizio del 2012 sono stati sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele più di 800 razzi e colpi di mortaio”.

Leggendo questo articolo insieme all’editoriale di “Le Monde”, si ha una visione se non altro più completa della situazione. Se da una parte c’è chi vorrebbe un’Europa più dura con Israele, che imponesse lo stop e il ritiro dei coloni dagli insediamenti nei territori palestinesi – conditio sine qua non per la ripresa dei negoziati di pace; dall’altra parte, si ricorda che quasi ogni giorno Israele vede piovere sul proprio territorio decine di razzi lanciati da Gaza, senza che nessuno ci presti più nemmeno attenzione. “Se questi attacchi fossero lanciati dal Messico verso il Texas, o dal Nord Africa verso il sud della Spagna, la storia sarebbe ben diversa” si legge sul “Wall Street Journal” che prosegue osservando anche che “il mondo è ossessionato da un possibile attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane e non si accorge che l’Iran, in quanto principale fornitore di armi ai palestinesi di Gaza, di fatto ha già cominciato la sua guerra contro Israele”.

Se ogni tanto non ci fosse qualche intervento come questo del Wall Street Journal, in effetti, difficilmente in Europa ci ricorderemmo che l’ostacolo alla ripresa dei negoziati di pace dipende non solo dagli insediamenti israeliani, ma anche dalle azioni terroristiche dei palestinesi di Hamas. Insomma gli estremisti che impediscono le trattative diplomatiche, stanno da entrambe le parti, ma i grandi giornali, in Europa, sembrano fare a gara per farcelo dimenticare.

Ma perchè, viene da chiedersi, i giornali europei propongono sempre (o quasi) una visione unilaterale delle cose quando si tratta di Israele? Perchè l’opinione pubblica in Europa è così schiacciata su un unico e solo fronte?

L’Europa ha vissuto per Israele una grande stagione d’amore dagli anni ’50 fino a tutti gli anni ’60. Poi il rapporto si è deteriorato, si è inasprito, fino ad arrivare a quello che oggi tutti conosciamo. Le ragioni del grande amore, sono ovvie quanto quelle della rottura: l’Europa pensava ad Israele come ad una sua costola nel Medio Oriente, un frammento d’Europa fuori dell’Europa, diceva qualcuno. Proprio per questa identità condivisa, la grande madre Europa si è sempre aspettata da Israele un comportamento all’ “europea”, ovvero secondo quei codici e quel “linguaggio” che l’Europa unita aveva messo a punto nel dopoguerra e che avevano nella pace, nella democrazia e nel rispetto del diritto internazionale, i loro cardini. Quando questi principi cominciarono ad essere messi in discussione, cominciò il lento allontanamento l’una dall’altro.

Lungo tutti gli anni ’50 fino agli inizi degli anni ’70 Israele godette in Europa di un appoggio e di una simpatia pressocchè incondizionate, anche all’interno della Comunità europea. Certo non mancavano i problemi, ma basta rileggersi qualche dibattito del Parlamento europeo degli anni ’60 e ’70 per rendersi conto dell’immagine  quasi favolosa che l’Europa si era costruita di Israele.
Il 1967, con la Guerra dei Sei Giorni e il successivo rifiuto di Israele di ritirarsi dai territori occupati – come chiesto dalla risoluzione 242 dell’ONU –  incrinarono un poco questa visione, ma senza comprometterla del tutto. Fu soprattutto con gli anni ’80 e via via nei decenni successivi che in Europa cambiò decisamente l’immagine e la considerazione di Israele (e la guerra del Libano del 1982, vi contribuì non poco): quando cioè, ormai, il mito del kibbutz e della socialdemocrazia erano sulla via del tramonto, il cambio generazionale in atto, il contesto internazionale ormai mutato rispetto agli anni del dopoguerra… Era come se lentamente Israele si fosse “estraniato” dall’Europa. O così, almeno, appariva a quelli di Bruxelles e Strasburgo.
Oggi questa sensazione di “estraneità” sembra permanere. E non importa se fra Europa e Israele ci sono fior di accordi che tengono unite le due sponde del Mediterraneo tenere – economici, di cooperazione scientifica, culturale, sportiva. L’opinione pubblica rimane e anzi diventa ogni giorno di più ostile e intollerante e insofferente verso Israele come forse verso nessun altro paese al mondo. E i giornali, i media, questa insofferenza non solo la riflettono, ma la amplificano (del resto, giusto per fare un esempio dei nostri giorni,  non è forse vero che la guerra civile in Siria, che miete vittime fra i civili ogni ora, non crea nell’opinione pubblica più attenta e sensibile alle questione dei diritti umani, la stessa attenzione e indignazione e condanna, che suscita la condizione dei palestinesi a Gaza?).

Qualche giorno fa un amico giornalista faceva notare come tutta la questione di Israele e del conflitto con i palestinesi, stia prendendo la forma quasi di un’ “ossessione”, di un tema di cui si tratta sempre meno con la ragione, e sempre di più con la “pancia”. E’ una diagnosi possibile; quanto alle cause, però, la discussione è terribilmente aperta.