L’esodo dimenticato degli ebrei libici ed egiziani approda alla Camera dei Deputati

Mondo

di Paolo Castellano

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Un’immagine dell’esodo degli ebrei libici

Prima della seconda guerra mondiale, in alcuni Paesi europei, l’identità ebraica era diventata una colpa e queste convinzioni e discriminazioni si materializzarono come noi tutti sappiamo nella Shoah. Anche fuori dal territorio europeo però l’essere ebrei rappresentava un buon motivo per essere spogliati di ogni diritto ed essere cacciati dalla propria terra amata e dalla propria patria come successe alla comunità ebraica libica ed egiziana dopo il 1967 che trovò in Italia un sicuro ambiente e una calda accoglienza da parte delle comunità ebraiche italiane. A livello internazionale e nei luoghi di dibattito pubblico, si parla ancora poco del massiccio esodo degli ebrei dai Paesi arabi nel XX secolo.

Questo argomento è stato approfondito durante un’audizione dei rappresentanti dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane avvenuta il 21 dicembre, a Roma, presso la Commissione esteri della Camera dei Deputati. L’audizione ha ospitato i contributi di Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – UCEI, David Meghnagi, Assessore alla Cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Vittorio Mosseri, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Presidente della Comunità ebraica di Livorno, Victor Magiar, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche, e Carolina Del Burgo, Rappresentante del Comitato ebrei espulsi dall’Egitto.

L’On. Fabrizio Cicchitto, Presidente della Commissione Esteri, ha introdotto così l’argomento delle relazioni all’ordine del giorno: «L’esodo della popolazione ebraica dai Paesi arabi inizia molto prima della nascita di Israele, come minoranza non islamica di fede monoteista riconosciuta dal Corano, e quindi definita “Gente del libro”.
Nell’Impero ottomano gli ebrei hanno condiviso con i cristiani la condizione di dimmī, minoranza tollerata in quanto assoggettata a un rigoroso regime di restrizioni condizionali alla professione della fede e alla permanenza sul territorio dell’Impero.

Le complesse vicende legate alla dissoluzione dell’Impero ottomano e all’intreccio tra politica europea e mediorientale hanno determinato, nel corso del XX secolo, un crescendo di pogrom, fino a un massiccio esodo degli ebrei dal mondo arabo e a una conseguente nuova diaspora verso l’Europa e le Americhe.
Quanto all’aggravarsi esponenziale della questione dopo la nascita dello Stato di Israele, ricordo che nella scorsa legislatura, sempre nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, si è tenuta su questa stessa tematica il 16 giugno del 2009 l’audizione del presidente onorario del centro Justice for Jews from Arab Countries, Irwin Cotler, e di David Meghnagi, docente dell’università di Roma Tre.
Emerse allora come i fatti del 1948 determinarono, insieme alla nota Nakba palestinese, anche un meno noto ma più consistente movimento di profughi ebrei, che coinvolse circa 850.000 persone. L’esilio/esodo fu allora determinato dal rifiuto da parte della leadership di molti Stati arabi nei confronti del nascente Stato di Israele ed ebbe per vittima i cittadini di ascendenza ebraica.
Il riconoscimento dei diritti dei profughi ebrei appartiene al novero delle questioni che compongono il nodo mediorientale e che dovrebbe trovare soluzione nel quadro dei negoziati di pace.
Quanto alla questione delle compensazioni, più che ragionare in termini di ritorno, è stata evidenziata allora l’opportunità di un ragionamento in termini di restituzione della memoria, della verità e della giustizia, concetti che rientrano nella nozione di compensazione data dal diritto internazionale».

L’On. Cicchitto ha terminato l’intervento esprimendo la propria posizione sul boicottaggio contro Israele: «Concludo questa mia introduzione ricordando anche il tema della campagna di boicottaggio, di disinvestimento e sanzioni contro prodotti provenienti o ascrivibili a Israele quale discriminazione di stampo antisemita, lesiva a nostro avviso di diritti e libertà fondamentali. Si tratta di un tema che è oggetto di un’iniziativa legislativa allo stato presentata presso il Senato e che sarà depositata entro l’anno anche presso questo ramo del Parlamento».

La parola è poi passata a Noemi Di Segni che ha formulato la sua opinione sul valore del ricordo di un esodo quasi dimenticato e sulla sofferenza di molte persone che si trovarono senza più nulla: «Cari amici, siamo qui oggi per narrare un esodo, un’immigrazione di cui forse non si è mai prima parlato in un’Aula parlamentare. Nessuno lo sa, ma è avvenuto appena cinquant’anni fa.

L’esodo dall’Egitto di Mosè e del popolo di Israele attraversando il Mar Rosso e il deserto risalente a migliaia di anni fa è, invece, ben noto. Forse perché lo abbiamo tramandato di generazione in generazione, è divenuto una parte del nostro patrimonio narrativo, anche perché raccontato dalla Bibbia, e patrimonio oggi di un’intera umanità attraverso l’Antico Testamento.
Quanto si racconta oggi è avvenuto in molti Paesi, non solo in Egitto, e riguarda il destino di centinaia di migliaia di persone fuggite dalle loro case, dalle loro patrie. Se scrivessimo oggi una Bibbia, forse la nostra storia sarebbe più conosciuta.
Parliamo di centinaia di migliaia di persone: Iraq, 150.000; Egitto, 75.000; Algeria, 160.000; Libano, 25.000; Libia, 40.000; Marocco, 265.000; Siria, 30.000; Tunisia, 70.000; Yemen, 60.000; Iran, 100.000. Non vi voglio tediare con numeri, ma dietro i numeri ci sono persone, bambini, usanze, affetti quotidiani, lavoro, processi di distacco e processi di difficile integrazione, ma ancor più massacri, violenze, repressione, torture, disconoscimento e perdita di ogni riferimento. Tutto questo è racchiuso oggi nella simbolica data del 30 novembre, stabilita nel 2014 dalla Knesset, il Parlamento israeliano».

Il Presidente Ucei ha inoltre ribadito che il conflitto mediorientale israelo-palestinese potrà trovare una sua risoluzione se verranno tenuti presenti anche questi avvenimenti storici: «La lettura data dalle organizzazioni internazionali del conflitto mediorientale, di quello tra Israele e i palestinesi in particolare, va integrata con questi dati per essere credibile, per dar credibilità all’azione di queste organizzazioni, di cui oggi l’intero agire va messo in discussione.
Dobbiamo poter guardare al futuro con fiducia, non con timore, con spirito di interesse e curiosità alla diversità anziché con diffidenza. Questo è per chi sceglie di cambiare Paese, ma esistono milioni di persone che desiderano rimanere nei loro Paesi, vivere e stare nelle loro patrie. Dobbiamo allora responsabilmente al contempo adottare una politica estera che generi stabilità nei Paesi di provenienza, nei Paesi arabi e del Medio Oriente, che gli esodi cui assistiamo quotidianamente siano storia, restino tali e non siano ancora il nostro futuro».

Nel secondo intervento, effettuato da David Meghnagi, si è inquadrato da un punto di vista storico l’esodo degli ebrei dai Paesi arabi, un tema molto sensibile per l’identità ebraica: «C’è una falsa narrazione, costruzione ideologica, che ha portato alla rimozione di questa realtà. Il conflitto mediorientale è stato iscritto in una lettura basata sulla dialettica imperialismo/antimperialismo, colonialismo/anticolonialismo, democrazia/dittatura, dimenticando che la dialettica del colonialismo riguarda anche un colonialismo interno ai Paesi che hanno subìto il colonialismo. Il colonialismo interno è la relazione che le maggioranze islamiche hanno istituito con le loro minoranze ebraiche e cristiane. Nel caso del cristianesimo, abbiamo a che fare con una civiltà precedente, che esisteva lì molto prima; nel caso ebraico, abbiamo a che fare con una presenza ebraica nel Mediterraneo ancestrale, con una realtà statuale nei millenni passati.
La rimozione serviva a occultare un dato, cioè a negare la realtà di una persecuzione esistente nei Paesi arabi, che è inspiegabile all’interno di quelle categorie, ma che attraverso una riflessione comparatistica, come ho tentato di fare in questi cinquant’anni, permette di comprendere meglio anche i problemi che abbiamo oggi. Citerò due esempi storici.
In Germania, l’emancipazione degli ebrei è stata il prodotto delle invasioni napoleoniche. Non è stato un progetto endogeno, in quanto l’illuminismo tedesco è stato culturale, spirituale, non processuale, come avvenuto in Francia. Questo spiega perché, paradossalmente, la reazione romantica nazionalista avvenuta in Germania ha individuato gli ebrei come capro espiatorio, come espressione della modernità e come espressione di una dominazione esterna, fatto falso.
Lo stesso è avvenuto con il fenomeno panslavista. L’Illuminismo è avvenuto come processo esterno, non endogeno, nel senso che le forze interne non erano forti abbastanza da produrre dall’interno processi trasformativi che avviassero a un processo di emancipazione delle minoranze locali oppresse. Nel momento in cui l’emancipazione è stata percepita dall’interno erroneamente come prodotto esterno, è avvenuto un corto circuito.
Lo stesso accadde in Italia con il Risorgimento. La campagna antimodernista avviata dalla Chiesa in chiave antisemita individuava gli ebrei come l’espressione della modernità, dimenticando che gli ebrei erano stati oppressi dalla Chiesa nel corso dei secoli. È cioè avvenuto una sorta di rovesciamento speculare, per cui la vittima emancipata diventava colpevole di essere libera.
Un problema analogo si è verificato nel mondo arabo e islamico e ha colpito anche le minoranze cristiane, che sono state percepite come elemento esterno, come espressione di una dominazione esterna, legata all’impatto tra la civiltà europea e quella del Mediterraneo, mentre erano una civiltà antecedente, essa stessa oppressa, ed era un elemento della borghesia nascente di quei Paesi.
Io credo che questo corto circuito culturale ancora non sia stato adeguatamente elaborato e abbia portato le classi dirigenti di quei Paesi a non percepire adeguatamente e a non elaborare culturalmente il danno arrecato alle loro minoranze e alle conseguenze che tutto questo ha prodotto nei rispettivi Paesi. Ha portato, infatti, a un blocco dello sviluppo e a un blocco dell’emancipazione.
Un secondo elemento che ha portato all’occultamento di questo dato, fondamentale, molto importante, è che la narrativa terzomondista, che ha portato a occultare il dato di realtà dell’oppressione degli ebrei nel mondo arabo e delle minoranze cristiane, delle minoranze yazide, delle minoranze animiste nel Sudan, aveva come elemento portante una sorta di processo che portava a individuare la nascita di Israele come prodotto della Shoah, e quindi a scaricare la colpa della Shoah sugli europei, dato di realtà, e a costruire una falsa narrazione, secondo cui la nascita di Israele era il prodotto della Shoah, una sorta di «donazione» occidentale a danno di altre popolazioni, falsificando la realtà complessa del processo storico. La nascita di Israele è avvenuta nonostante la Shoah, non a causa della Shoah.

Poi esiste un problema di autopercezione con cui gli ebrei del mondo arabo hanno percepito se stessi. Gli ebrei del mondo arabo, pur subendo angherie di ogni tipo, hanno trasformato il loro esilio in esodo, trasfigurato il loro dolore attraverso una visione del futuro, e la visione del futuro è stata il tentativo di ricostruire la loro esistenza spezzata o in Occidente, come è avvenuto per coloro che avevano la cittadinanza occidentale o hanno scelto o hanno avuto la possibilità di emigrare nelle diverse città europee o americane.
Costruire un’esistenza possibile in un mondo in cambiamento è difficile. La maggioranza è emigrata in Israele. Lo Stato di Israele è stato percepito da chi fuggiva come una specie di oasi di ricostruzione dell’esistenza e di una visione possibile del futuro, quasi messianica. Era questo il sentimento dominante nelle masse povere che emigravano.
La trasfigurazione del dolore attraverso una visione del futuro ha reso possibile la sopportazione del dolore e della fatica, della vita in tende, della vita in baracche, di una lenta trasformazione dell’esistenza. Lo Stato di Israele ha accolto, avendo appena 600.000 abitanti nel 1948, circa 400.000 scampati allo sterminio e oltre 700.000 ebrei fuggiti dal mondo arabo. È come se l’Italia passasse da una popolazione di 60 milioni a 180 milioni di abitanti nel giro di dieci anni. Tutto ciò è avvenuto faticosamente, con un processo trasformativo lento, che ha reso possibile la ricostruzione dell’esistenza spezzata.
Dall’altra parte, questo non è avvenuto. Occorre sottolineare, come anche Cotler ha sottolineato qui insieme a me alcuni anni fa, che la fuga degli ebrei del mondo arabo non è legata al conflitto mediorientale. Gli ebrei del mondo arabo non erano parte attiva di quel conflitto. Il conflitto avveniva anche a migliaia di chilometri.
Nel caso del conflitto che ha coinvolto il dramma della popolazione palestinese nel corso della guerra dal 1948 al 1949 scatenata dalla Lega araba per impedire la nascita di Israele, che ha avuto come conseguenza la tragedia dei profughi, avevamo a che fare con una componente del conflitto. Lo dico con affetto, senza alcuna forma di rancore, non per sottolineare una gradazione sul dolore. Il dolore umano è sempre identico per chi lo subisce e per chi lo esperisce.
Dal punto di vista politico, però, contro le false narrazioni dominante è importante sottolineare che la persecuzione di un ebreo di Libia, a migliaia di chilometri da un dramma che si svolge nel Medio Oriente, sarebbe come la persecuzione di una minoranza ebraica abitante in Svezia nel contesto di un conflitto tra il Piemonte e la Sicilia, pensato in termini chilometrici. Non ha nessuna relazione se non ideologica.
Gli ebrei sono stati percepiti come ostaggio in qualunque luogo essi fossero, come elemento colpevole per avere osato mettere in discussione l’ideologia dimmī, il patto di Omar, che stabilisce che nel dār al-Islām, nella casa dell’Islam, le minoranze possono essere rispettate a patto che accettino un atto di subordinazione ideologica, che implica una serie di conseguenze. Possono essere tollerate, ma non possono essere libere. La messa in discussione di questo statuto è percepita come la messa in discussione di uno stato naturale.
Per questo ritengo che all’interno della cultura islamica, come dico a tanti amici islamici, è necessario anche in quel mondo una sorta di Concilio Vaticano II, cioè una capacità di rielaborare il tessuto ideologico, il tessuto culturale, che percepisce l’altro come dominato e non come uguale, all’interno del contesto del dār al-Islām.
Gli ebrei che vivevano a Rabat, a Tunisi, in Libia, a migliaia di chilometri, erano popolazioni pacifiche, abituate alla subordinazione da secoli, che ritagliavano uno spazio di esistenza personale. Non erano un elemento del conflitto, se non nella percezione di chi li ha perseguitati. Questo è un elemento molto importante per ricostruire una narrazione che non sia ideologica, ma una ricostruzione scientifica di quei processi complessi, che permettono anche di gettare le basi per un futuro diverso.
Io credo, come insegnava Walter Benjamin, che il passato debba essere redento perché il futuro sia possibile. Se redimiamo il passato, redimiamo la memoria, creiamo le condizioni perché le speranze del passato, che hanno unito tutte le popolazioni che hanno sofferto, possano trovare uno spazio di redenzione, anche il futuro sarà possibile e potrà essere declinato come un futuro possibile per questo mare, il Mediterraneo, così dilaniato, ma così ricco di storia e di speranze spezzate».

La parola è poi passata a Victor Magiar che ha raccontato, attraverso la rievocazione della propria memoria, i fatti che lo portarono all’esilio: «Sono nato in Libia e sono scappato, come molti altri, nel 1967.
Si racconta da decenni di una guerra tra arabi ed ebrei, un po’ la storia tra cani e gatti. Questa è la lettura semplificata. Non è così, non è mai stato così.
Nessuno si permetterebbe di raccontare la Seconda guerra mondiale come un conflitto tra inglesi e tedeschi. Per spiegare la Seconda guerra mondiale, bisogna spiegare che cos’è il nazismo, che cosa le ideologie totalitarie del XX secolo. Nessuno potrebbe raccontare la Guerra fredda parlando di inimicizia tra russi e americani. Dobbiamo usare categorie della politica e della storia. E la storia è molto semplice.
Il mondo di cui parliamo relativamente a questo conflitto è molto esteso. Le terre che erano una volta dell’Impero ottomano, i Paesi della Lega Araba, hanno un’estensione territoriale equivalente a due Europe geografiche e mezzo. Oggi hanno 350 milioni di abitanti, nel 1967 avevano 100 milioni di abitanti, all’inizio dello scorso avevano 50 milioni di abitanti, in mezzo ai quali c’era un milione di ebrei. Il punto è che, caduto l’Impero ottomano, in quel mondo sono nate tre ideologie politiche, che abbiamo ancora oggi davanti, le ideologie politiche dei regnanti, dei sovrani, su territori definiti con una memoria storica. La Tunisia, il Marocco, sono Stati piccoli, ma con confini veri, come potete vedere sulla cartina, dove non hanno delle linee rette ma appunto confini veri, una storia secolare, come il Marocco, che ha un regno di seicento anni di storia. Questi sovrani, queste dinastie, queste popolazioni, che avevano identità nazionale, hanno scelto delle strade di tolleranza e di incontro per accedere alla modernità.
Gli altri Paesi sono totalmente inventati, come la Libia, dove siamo nati noi, che durante l’Impero ottomano era solo una striscia di terra lungo il mare, mentre tutto il resto era deserto. L’Italia ha inventato la Libia, grande sei volte l’Italia, mentre il Sudan è grande dieci volte l’Italia e l’Algeria otto volte. Questi territori immensi senza legge di popolazioni molto diverse sono state inventate dal colonialismo, sono nate delle Nazioni fasulle, delle colonie.
E sono nate altre due ideologie, che oggi seminano morte in Europa, prima contro di noi e poi contro tutti: il nazionalismo arabo, il panarabismo poi, e il panislamismo.
Che cosa sostiene il panislamismo? Secondo la teoria dei Fratelli Musulmani, è ciò che unisce tutte queste popolazioni assolutamente diverse tra loro. Oggi abbiamo il conflitto in Libia e siamo meravigliati che ci siano tante tribù. È normale, sono sempre esistite tante tribù, ma non è mai esistito uno Stato libico così come lo intendiamo oggi. È stato il colonialismo a inventare questi Stati. I Fratelli Musulmani inventano che la colla che lega tutte queste popolazioni è l’Islam, e quindi usano la religione per creare identità e sono i primi a creare un movimento che attraversa il continente.
Questa divisione ideologica è evidente sia alla fine del colonialismo sia durante la Seconda guerra mondiale – così capiamo che non è una storia tra cani e gatti, ma una storia ideologica e politica – quando il re del Marocco si rifiuta di consegnare ai nazisti i suoi 300.000 ebrei mentre il muftì di Gerusalemme si schiera con i nazisti. Quando finirà la Seconda guerra mondiale, i nazisti tedeschi che scapperanno dalla Germania, andranno in America Latina o in Siria, in Iraq, in Egitto.
C’è, quindi, una posizione, un collocamento ideologico e politico, e saranno i Paesi, sarà la nuova Lega Araba nascente negli anni ‘40, a organizzare i primi pogrom antiebraici, che si verificavano quasi simultaneamente in tutte le città arabe, dal Marocco fino all’Iraq, in date prestabilite, come il 2 novembre, data della dichiarazione Balfour. A Tripoli, la nostra città, furono organizzati ben quattro pogrom molto sanguinari nel 1945, nel 1948, nel 1956 e nel 1967, quello che ho vissuto io. Mia madre li ha vissuti tutti e quattro.
Il punto fondamentale che bisogna capire è che queste città, Tripoli, come Algeri, con Istanbul, come tutte le città del Mediterraneo, sono da secoli, da millenni, città multietniche e multiculturali. Gli ebrei sono arrivati in Algeria nel 400 a.C., gli arabi ci sono arrivati nel 600 d.C., mille anni dopo di noi. In Libia siamo arrivati nel 200 a.C., a Tripoli nel 70 a.C., gli arabi nel 600 d.C.
E quando sono arrivati gli arabi c’erano già greci, armeni, ciprioti, quindi queste città, la città che io ho conosciuto, la scuola che frequentavo, dove si parlavano dieci lingue diverse, sono multietniche e multiculturali. Oggi, queste sono città rese unicamente arabe, perché tutte le minoranze sono state cacciate.
Quando pensiamo alle minoranze, non ci riferiamo a minoranze prodotte dal colonialismo, perché gli armeni sono da millenni in quelle terre, le chiese greche o quelle romaniche. La chiesa più antica di Tripoli, la chiesa di Santa Maria degli Angeli è stata realizzata dai maltesi. Parliamo, quindi, della sparizione della civiltà, della convivenza, della multiculturalità, del multilinguismo e della multireligiosità in terre che sono sempre state così, in città che sono state fondate dai Fenici, come Tripoli, coi quali arrivarono gli ebrei.
Non è, quindi, un conflitto e non siamo qui per raccontare una vicenda solo nostra, la storia della cacciata e della fuga. Romanticamente, lo chiamiamo esodo, ma non è un esodo. Noi l’abbiamo trasformato in esodo, perché ci siamo dati una narrazione positiva. In fondo, rispetto ai nostri fratelli, al pezzo della mia famiglia sterminata in Europa durante la Shoah, quella del pezzo di famiglia che dall’Africa è sopravvissuta ed è scappata in vari Paesi, è una storia più fortunata.
Questa è, però, la storia della cancellazione dell’identità multietnica del Mediterraneo e di queste terre. Non è una storia solo nostra. È una storia di tutti. Bisogna capire che il nemico non è l’arabo o il palestinese. Queste sono cose che personalmente rigetto. Anche con David Meghnagi abbiamo un impegno decennale in campo pacifista per il dialogo israelo-palestinese.
Il punto è proprio questo, bisogna capire che esistono ideologie totalitarie e di morte. Questi sono i nostri nemici».

Carolina Del Burgo ha invece narrato l’esodo dal territorio egiziano attraverso le vicende accadute alla sua famiglia: «Sono venuti in piena, hanno bussato dopo mezzanotte a casa nostra. I miei genitori sono andati ad aprire e hanno visto la Polizia con alcuni militari. Avevano un mandato di perquisizione. Hanno perquisito dappertutto in casa e non hanno trovato nulla, ma alla fine hanno detto a mio padre e mia zia, Sara, sorella di mamma e socia di mio padre negli affari, di seguirli al commissariato per delle formalità.
Non sono più tornati a casa. Dopo poco mia madre è stata contattata dal console italiano in quanto italiana e le ha detto che eravamo diventati cittadini sgraditi al popolo egiziano, che aveva tre settimane di tempo per liquidare tutto, casa, oggetti, ufficio, macchine, conti in banca, tutto, tre settimane. Ovviamente, non si riusciva a far nulla. Tutto è stato abbandonato.
Nel giorno designato dal console, ci siamo ritrovati tutti in piena notte in mezzo alla campagna. Dovevamo andare via senza essere visti da nessuno, cosicché il giorno dopo, quando sarebbero venuti a cercarci, non ci avrebbero trovato.
Il console aveva una lunga lista di nomi in mano e in piena notte chiamava queste persone, a cui, facendo fare un passo avanti, indicava un pullman dove dovevamo salire. Con questo pullman siamo arrivati da Il Cairo fino ad Alessandria, città di mare, e lì dall’alba fino all’ora del tramonto siamo stati umiliati, presi in giro, canzonati. Tutti i doganieri, i poliziotti, prendevano le valigie. Avevamo solo una valigia a testa e l’equivalente di 25 euro per ogni adulto e la metà per i bambini. Le valigie sono state capovolte e buttate a terra per il controllo, per vedere che non ci fossero dei denari o dell’oro. Poi hanno perquisito anche personalmente ognuno di noi.
Soltanto all’ora del tramonto, sfiniti, veramente senza neanche un briciolo di forza, siamo arrivati al molo dove ci aspettava la nave Achilleus, una nave greca che ci avrebbe portato in Italia, dove siamo arrivati all’alba di domenica, 29 novembre 1956. Nel porto ci hanno mantenuto dall’alba fino al tramonto, perché soltanto la Capitaneria di porto, i poliziotti e i giornalisti potevano salire a bordo per intervistarci e controllarci. Soltanto all’ora del tramonto ci fu dato il passaporto e potemmo scendere a terra.
Ci aspettavano dei pullman, che ci hanno portati in una stazione sanitaria marittima lontana dal centro, perché avevano paura che portassimo con noi anche delle malattie infettive. Siamo rimasti in questo campo per un mese e mezzo, poi mio padre ha trovato un lavoro molto più degradante di quello che aveva, a Napoli. Mia madre lo ha raggiunto poi con noi due figli piccoli, e infatti io avevo all’epoca undici anni. È iniziata per noi una vita estremamente difficile, con mille peripezie, mille problemi e umiliazioni.
Ora noi profughi italiani ebrei d’Egitto stiamo invecchiando, stiamo ormai piano piano scomparendo. Dopo di noi non ci sarà nessuno che verrà a raccontare questa storia. La memoria verrà cancellata. Noi, però, in questo frangente ci siamo dati da fare per creare un nuovo mondo per i nostri figli e per mantenere la memoria. Cerchiamo di parlare, comunicare, raccontare o scrivere dei libri per dire – si può dirlo chiaro e forte – che la nostra vita è stata ampiamente positiva.
Dalle macerie del mondo che fu, dalla perdita di tutti i nostri beni, dalle umiliazioni facemmo nascere nuove prospettive, nuove forze. Senza nessun aiuto da parte del Governo se non quello dell’accoglienza, ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo ricostruiti una nuova e dignitosa vita qui in Italia».

L’audizione è terminata con il contributo di Vittorio Mosseri che ha sottolineato l’importanza del ruolo delle comunità ebraiche italiane nell’accoglienza degli ebrei esiliati: «La cosa fondamentale rispetto alla fine degli anni Cinquanta e fino agli anni Settanta, è il contesto sociale in cui siamo arrivati. Sicuramente, c’era maggiore predisposizione all’accoglienza, sicuramente lo stato d’animo della popolazione italiana rispetto agli stranieri che arrivavano era diverso. Lo straniero non era visto come un invasore, come un nemico.
Oggi ci troviamo a dover accogliere centinaia di migliaia di persone che sono viste più come nemici che come una risorsa, sono visti come diversi.
Io credo che un ruolo fondamentale sia stato svolto dalle comunità ebraiche che insistevano già in Italia come ruolo di socializzazione. Ci hanno aiutato tantissimo, nelle difficoltà burocratiche, nel cercare lavoro, nella lingua. Credo che questo ruolo delle comunità ebraiche sia stato fondamentale per riuscire ad assorbire nel miglior modo possibile il trauma dell’allontanamento dalle proprie abitudini, dal proprio Paese, dal proprio vissuto.
Siamo venuti in Italia per costruirci una vita qua. Siamo venuti per essere italiani. Abbiamo recepito al 100 per cento i valori di questa società. Quello che credo sia necessario fare è riuscire a integrare quanto più possibile le comunità straniere che risiedono in Italia attraverso un dialogo stretto con loro, farli sentire facenti parte del corpo dello Stato, così come lo sono state e lo sono le comunità ebraiche italiane. Credo che davvero le istituzioni dovrebbero cercare un dialogo continuo.
Ovviamente, dobbiamo superare molte barriere, tra le quali una delle più importanti è sicuramente la lingua. Abbiamo bisogno di mediatori culturali, ma soprattutto di riuscire a far integrare le comunità straniere in Italia, in modo che anche loro possano svolgere quel ruolo di socializzazione così come lo hanno svolto e così come lo svolgono le comunità ebraiche italiane.
Credo che davvero ci troviamo di fronte a una sfida: integrazione o integralismo? Dobbiamo vincere questa battaglia dell’integrazione, altrimenti ci troveremo a dover affrontare una battaglia molto più grande, che è quella dell’integralismo. È davvero uno sforzo immane quello che chiediamo all’Italia, ma dobbiamo far tesoro dell’esperienza precedente avuta con le comunità ebraiche italiane per poter vincere questa sfida, che mette a rischio la nostra civiltà».