La colpevole indifferenza all’ombra di Manneken Pis

Mondo

di Ilaria Myr

7772367211_le-24-mai-2014-une-fusillade-a-fait-4-morts-dans-le-musee-juif-de-bruxellesAnversa, giugno 2013: l’aggressione fisica alla compagna di una donna ebrea da parte dei vicini di casa, dopo mesi di insulti antisemiti, lascia interdetta l’opinione pubblica belga, ugualmente divisa tra benpensanti e progressisti “politicamente corretti”. Settembre 2013: un sito istituzionale del Ministero dell’Educazione paragona Israele alla Germania nazista con un’orribile vignetta, che ritrae un deportato ebreo e un arabo sul filo spinato di un campo di concentramento, in una posizione in cui il corpo forma una svastica. Maggio 2014: un attentato a mano armata al Museo ebraico di Bruxelles provoca la morte di quattro persone. Luglio-agosto 2014, Anversa: un medico si rifiuta di curare una signora novantenne perché ebrea; in un bar di Liegi un cartello sulla vetrina riporta che è permesso l’ingresso ai cani ma “non ai sionisti”. E ancora: a Bruxelles, una signora di 75 anni viene attaccata dal giovane che attende in coda, dietro di lei, nella fila, a causa del suo cognome ebraico.
Questi sono solo alcuni degli episodi di antisemitismo (a cui se ne aggiungono ogni giorno altri) avvenuti in Belgio negli ultimi due anni: un Paese che, nonostante le sue piccole dimensioni – è grande come la Lombardia – e il ristretto numero di abitanti in valori assoluti – circa 11 milioni, di cui 50.000 ebrei e oltre 700.000 musulmani -, ha fatto spesso parlare di sé per i ripetuti episodi antiebraici. In particolare, il brutale attentato al Museo Ebraico di Bruxelles, uno choc che non si è ancora dissipato: provocò la morte di quattro persone, un attacco nel cuore d’Europa alla vigilia delle elezioni europee, per mano di un cittadino francese di origini tunisine. Un classico esponente di quella seconda e terza generazione di immigrati musulmani in Europa il cui fanatismo e odio contro gli occidentali sta dimostrando il fallimento di un modello multiculturale e di una politica di integrazione mandata avanti per anni.

Durante l’operazione israeliana Barriera protettiva, a Gaza, poi, l’intero Pays plat è stato teatro di gravi episodi di antisemitismo, che a moltissimi hanno ricordato lo stesso clima anni ’30, alla vigilia della Shoah.
Come in molti Paesi europei, l’antisemitismo in Belgio non è certo un fenomeno recente. Solo negli ultimi 40 anni, si contano diversi attacchi mortali che hanno profondamente segnato la Comunità locale. Nel 1980, ad Anversa, un attentato contro un gruppo di bambini ebrei che partiva in colonia fa un morto e 19 feriti; nel 1982, chi non ricorda lo sgomento provato davanti ai morti dell’attacco alla sinagoga di Rue de la Régence a Bruxelles? Mentre nell’89 un belga-marocchino assassina Joseph Wybran, presidente del CCOJB-Comité de coordination des organisations juives de Belgique (il corrispondente dell’Ucei, ma solo per le comunità francofone).
«L’attentato di Bruxelles era prevedibile – spiega l’attuale leader del CCOJB, Maurice Sosnowski -. Sapevamo che qualcosa sarebbe successo: non potevamo sapere quando, ma ce lo aspettavamo. Questo non solo perché era la vigilia delle elezioni, ma soprattutto perché in Belgio, negli anni, è cresciuta la presenza di terroristi. Basti pensare che oggi è di gran lunga il primo Paese – in proporzione al numero della popolazione – da cui provengono gli jihadisti. Per questo, dopo l’attentato di Tolosa, avevamo organizzato al nostro interno un’unità di crisi che lavora su diversi fronti (sicurezza, psicologico, medico, comunicativo, giuridico), che ha gestito in modo impeccabile il dopo attentato».
D’altro canto, è indiscutibile come il Paese abbia assistito a un inasprimento delle dichiarazioni ed episodi antisemiti con l’aggravarsi delle tensioni israelo-palestinesi, che negli ultimi anni sono state segnate da conflitti militari come, appunto, l’operazione Piombo Fuso, o quella più recente Barriera Protettiva. In particolare, dopo quest’ultima (molto più che in occasioni precedenti), in tutta Europa si sono moltiplicati gli incidenti antisemiti, esaminati in un report dell’Anti Defamation League dedicato proprio all’antisemitismo dopo quest’ultimo conflitto.
«In seguito all’operazione Piombo Fuso (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009, ndr), la situazione si è deteriorata in maniera esponenziale – continua Sosnowski – sia nei discorsi della gente sia soprattutto sul web. A Bruxelles e Anversa ci furono delle manifestazioni contro Israele cui parteciparono addirittura alcuni politici e in cui si gridava “Morte agli ebrei”». E oggi, dopo la guerra di questa estate, la situazione è notevolmente peggiorata».
Per questo, come sostiene Raphael Werner, presidente ad Anversa dell’organizzazione ebraica delle comunità fiamminghe Forum der Joodse Organisaties (FJO), si possono nettamente distinguere due fasi del recente antisemitismo: una prima e una dopo l’ultima guerra di Gaza. In mezzo, si trova l’attentato al Museo ebraico, che ha visto da parte del governo belga un grande sostegno alla comunità ebraica locale.
«Prima della guerra c’erano certamente degli incidenti ma, a parte qualche caso eccezionale, niente di troppo allarmante – spiega -. L’attentato a Bruxelles è stato invece uno spartiacque, uno choc, in occasione del quale abbiamo però avuto un sostegno pubblico importante da parte delle istituzioni. L’operazione a Gaza ha generato invece reazioni differenti: i politici belgi non si sono espressi né pro né contro Israele, mentre in alcune manifestazioni pro-Palestina organizzate da una parte della popolazione musulmana si sono sentite grida come “Morte agli ebrei”».
Quello che però colpisce di più è l’atteggiamento di una fetta importante di professionisti belgi, che ha agito in maniera inaccettabile: ad esempio, il collettivo di 220 medici e avvocati che ha invitato i politici a condannare “i crimini contro l’umanità commessi da Israele a Gaza”, comparando lo Stato ebraico alla Germania nazista, oppure quel medico di guardia che si è rifiutato di curare una signora anziana. «E poi c’è la stampa, che propone un amalgama confuso fra ebrei e israeliani – continua Werner – andando così a influenzare l’opinione della gente comune, che in alcuni casi reagisce in modo scomposto».
Tutto ciò dimostra come accanto a un antisemitismo di matrice islamica, dovuto a una grande presenza musulmana nel Paese, in Belgio i sentimenti antisemiti non siano mai veramente venuti meno: una ricerca di tre anni fa, svolta dall’università fiamminga nelle scuole, ha infatti documentato come si sia dimostrato antisemita il 55% dei bambini musulmani, ma anche il 38% di quelli cristiani praticanti. «Come se un antisemitismo latente fosse rimasto sopito nell’inconscio collettivo della società, per riaffiorare con grande potenza in relazione alla guerra in Medio Oriente – continua Maurice Sosnowski (CCOJB) -. Perché essere antisemiti non è politically correct, ma essere antisionisti sì».
Eccoci dunque alla questione forse centrale dell’antisemitismo in Belgio, oggi: che in nome dell’antisionismo e dei sentimenti contro Israele tutto è lecito. E ciò è reso possibile dal fatto che non ci sia davvero nessuno a porre dei limiti. «Qui, per prime, sono le stesse istituzioni a non fare nulla per difendere i valori democratici, come l’uguaglianza e il rispetto reciproco – continua Sosnowski -. Spesso, ad essere in prima fila alle manifestazioni in cui si urla “Morte agli ebrei” sono proprio i politici, senza che sentano minimamente il bisogno di condannare od opporsi. In Francia, il Ministro Manuel-Valls ha avuto il coraggio di vietare gli spettacoli di Dieudonné: da noi, invece, nessuno prende apertamente posizione contro fatti inammissibili in una democrazia».
Questo perché il gioco della politica ha in molti casi la meglio sulla difesa dei diritti. Non è un caso che molti partiti belgi, soprattutto di sinistra, abbiano nelle loro fila dei musulmani che si esprimono chiaramente contro Israele e gli ebrei, e in alcuni casi perfino in favore della jihad, senza che i loro colleghi cattolici si oppongano. «I candidati musulmani moderati non osano esprimersi per paura di ritorsioni da parte delle frange più estremiste – continua il presidente del CCOJB -, e anche i non musulmani non osano dire niente, perché sono essi stessi imprigionati dalla minoranza integralista. C’è ipocrisia e mancanza di coraggio da parte delle istituzioni. Mi viene allora da dire che forse in questi anni siamo stati davvero troppo permissivi».