Gaza, la guerra delle bugie: ex giornalista dell’Associated Press rompe il silenzio

Mondo

di Nina Deutsch
Matti Friedman denuncia pressioni dirette di Hamas e complicità indirette dei media. Dalla censura sulle vittime ai set fotografici costruiti: così si fabbrica la narrazione della guerra.

 

Ha rotto il silenzio denunciando una realtà scomoda; una realtà che pochi media occidentali osano ammettere. Matti Friedman, ex giornalista dell’Associated Press (AP) tra il 2006 e il 2011, sostiene che l’agenzia abbia ceduto a pressioni dirette di Hamas già dal 2008, cancellando dettagli scomodi e alterando così la percezione pubblica degli eventi. In tempo di guerra, la verità non è solo la prima vittima: è anche il trofeo più ambito. Nel conflitto israelo-palestinese, la battaglia per il controllo della narrazione è feroce quanto quella sul campo. E spesso, i media diventano essi stessi parte in causa.

 

Un episodio emblematico, raccontato da Friedman, risale alla fine del 2008: durante la guerra a Gaza, inserì in un articolo un passaggio che spiegava come i miliziani di Hamas si travestissero da civili, finendo così conteggiati tra le vittime innocenti nei bilanci ufficiali. Poche ore dopo ricevette una telefonata da un collega: «Matti, devi eliminare quel dettaglio». Non era un suggerimento editoriale, ma una correzione imposta, frutto di minacce dirette. Da allora, afferma Friedman, l’AP e altre testate hanno finito per collaborare, di fatto, alla censura di Hamas. Nei resoconti, le immagini di civili morti sono onnipresenti, mentre i combattenti scompaiono. «I dati ufficiali – diffusi dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas – vengono accettati senza un reale contraddittorio».

Il problema è anche logistico e strutturale. A Gaza non ci sono giornalisti occidentali: l’accesso è precluso. Le informazioni arrivano da reporter palestinesi, alcuni vicini o interni a Hamas, altri semplicemente intimoriti. È un imbuto informativo in cui una sola fonte controlla il flusso, determinando ciò che il mondo vede e pensa.

Questa dinamica si riflette in episodi recenti, come il caso della foto della fame nella Striscia di Gaza. Lo scorso 7 agosto, la Süddeutsche Zeitung ha pubblicato un’immagine che mostrava palestinesi affacciati da un muretto con contenitori vuoti, apparentemente in attesa di cibo. Dietro l’obiettivo c’era Anas Fteiha, collaboratore dell’agenzia turca Anadolu. Ma secondo la ricostruzione del quotidiano tedesco, sul lato opposto del muretto non c’era alcuna distribuzione di aiuti in corso: il gesto era rivolto al fotografo, non agli operatori umanitari (Leggi anche Corriere della Sera).

La foto ha acceso un forte dibattito. Il tabloid Bild ha accusato Fteiha di inscenare la propaganda di Hamas, Israele l’ha definita un esempio di “Pallywood” – l’unione dei termini “Palestina” e “Hollywood” usata per descrivere presunte messinscene mediatiche – mentre i sostenitori di questa tesi l’hanno usata per mettere in dubbio la gravità della crisi umanitaria. Tuttavia, come sottolinea il giornale, questo non toglie nulla alla sofferenza reale e drammatica della popolazione di Gaza, ampiamente documentata da molte fonti indipendenti. Allo stesso tempo, la diffusione di notizie false e propagandistiche da parte di Hamas, che mirano soprattutto a demonizzare Israele, è controproducente e pericolosa: esaspera gli animi e l’animosità nell’opinione pubblica, compromettendo l’obiettività necessaria per capire la complessità della situazione.

Ad accrescere la tensione, il giornalista israeliano Barak Ravid, da Washington, ha sottolineato un punto cruciale: Israele non consente alla stampa internazionale di entrare liberamente a Gaza. Questo rende quasi impossibile verificare i fatti in maniera indipendente. In assenza di osservatori neutrali, ogni immagine, ogni numero e ogni testimonianza diventa terreno di scontro politico e propagandistico.

Nel frattempo, i social media amplificano la guerra delle immagini. Video emotivi — bambini feriti, soccorsi frenetici, ospedali sovraffollati — circolano senza sosta. Alcuni sono autentici, altri manipolati o fuori contesto, ma tutti hanno un obiettivo: suscitare reazioni forti e orientare l’opinione pubblica prima ancora che la verifica possa intervenire.

La diffusione di fake news e contenuti distorti in tempo di guerra non è un effetto collaterale, ma una strategia deliberata. Alimenta la confusione, sposta il dibattito su un piano emotivo e priva il pubblico di basi solide per formarsi un’opinione. In questo scenario, il giornalismo rischia di diventare un’eco della propaganda, anziché uno strumento per smascherarla.

La lezione è chiara: chi controlla le immagini controlla il racconto. E chi controlla il racconto, in guerra, detiene una delle armi più potenti.