sito di Natanz in Iran colpito

Emanuele Ottolenghi: “Israele non solo ha seriamente danneggiato il programma nucleare iraniano, ma ha reso al regime molto più difficile ricostruirlo”

Mondo

di Francesco Paolo La Bionda

Il conflitto tra Israele e Iran, che ha visto lo Stato ebraico e gli Stati Uniti infliggere seri danni al programma nucleare del regime di Teheran, è un evento storico che sta già avendo profonde ripercussioni sulla geopolitica del Medio Oriente e non solo.

Per approfondirne le implicazioni e analizzarne i dettagli, abbiamo intervistato Emanuele Ottolenghi, politologo e saggista italiano specializzato in Medio Oriente, terrorismo e antisemitismo. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna e con un dottorato in Teoria Politica all’Università Ebraica di Gerusalemme, Ottolenghi ha insegnato Storia d’Israele presso l’Oxford Centre for Hebrew and Jewish Studies e il Middle East Centre del St. Antony’s College, ha diretto il think tank Transatlantic Institute, è stato Senior Fellow presso la Foundation for Defense of Democracies (FDD), e ora lavora come senior advisor della società di elaborazione dati di rischio 240 Analytics. È autore di numerosi saggi e articoli su questioni mediorientali.

Emanuele Ottolenghi

Israele aveva previsto da anni la possibilità di colpire militarmente i siti del programma nucleare iraniano. Quali fattori lo hanno spinto ad agire a partire dal 13 giugno scorso?

La relazione dell’AIEA dello scorso 12 giugno, in cui ha affermato che l’Iran non stesse rispettando gli obblighi di proliferazione nucleare, ha rivelato certamente al mondo la gravità della situazione e l’avanzamento del programma nucleare di Teheran. Gli israeliani però queste informazioni le avevano già, quindi non credo che il rapporto dell’agenzia sia stato un fattore determinante.

È stata importante invece, a mio parere, la conclusione dei sessanta giorni che Trump aveva posto come ultimatum per concludere un negoziato tra Stati Uniti e Iran sulla questione. Israele ha quindi preso consapevolezza che si fosse aperta una finestra d’opportunità, inizialmente se non con il sostegno del presidente americano, almeno col suo tacito consenso. Credo che negli scorsi mesi ci sia stato un andirivieni di funzionari tra Gerusalemme e Washington, in cui gli israeliani hanno convinto i colleghi americani, grazie anche a informazioni d’intelligence condivise, che la finestra utile per intervenire si stesse chiudendo, visti i progressi del nucleare iraniano.

Un altro fattore importante è stata la vulnerabilità dell’Iran a seguito sia dell’indebolimento di Hezbollah e Hamas, in Libano e Gaza, sia degli scontri diretti con Israele avvenuti lo scorso anno. Gerusalemme, infatti, non solo ha neutralizzato le due milizie proxy di Teheran, ma negli attacchi diretti avvenuti ad aprile e ottobre 2024 ha dimostrato di poter penetrare le difese aeree iraniane e le ha in parte neutralizzate, distruggendo i sistemi d’arma antiaerei russi S-300 posti a difesa di uno dei siti nucleari.

 Leggi anche: Israele attacca l’Iran: obiettivi nucleari e militari colpiti in tutta la Repubblica Islamica

 

Come si spiega la decisione del presidente statunitense Trump di intervenire militarmente in un secondo momento rispetto all’inizio dell’offensiva israeliana?

Credo che Trump volesse evitare il rischio di una guerra prolungata che avrebbe potuto portare a una possibile escalation regionale e sapeva che l’intervento militare americano avrebbe potuto portare a una conclusione molto più rapida del conflitto. Gli israeliani avevano dichiarato di avere soluzioni proprie per eliminare i siti nucleari iraniani più inespugnabili come Fordow, ma avrebbero richiesto molto più tempo, prolungando il conflitto con tutte le sue incognite, e comportato molti più rischi.

Ritengo inoltre che gli americani abbiano ricevuto le informazioni sulla base delle quali gli israeliani avevano deciso di attaccare e le abbiano fatte loro, concludendo che un loro intervento avrebbe potuto essere molto più risolutivo, evitando un trascinarsi del conflitto e il rischio che la partita non venisse davvero chiusa.

È anche possibile che Trump, e questo non esclude gli altri fattori, di fronte al successo israeliano che si stava già profilando, abbia deciso di mandare un messaggio forte non solo all’Iran, ma anche alle altre potenze e agli altri paesi della regione. Ha messo in atto un’operazione militare magistralmente eseguita, con armamenti ineguagliabili, dimostrando che l’America resta a fianco dei propri alleati e mantiene la propria parola sulle questioni di sicurezza nazionale e sugli interessi globali che considera non negoziabili. Questo è un messaggio che trascende lo scontro tra Israele e Iran: è un messaggio alla Russia, alla Cina e anche agli alleati del Golfo, che nei quattro anni di presidenza Biden hanno dubitato della credibilità e dell’affidabilità del loro alleato a Washington.

Questa spiegazione, secondo me, viene confermata anche dalle parole di Mark Rutte, il Segretario Generale della NATO, che al vertice dell’Aia ha ringraziato Trump per aver eliminato la minaccia iraniana, aggiungendo che oggi la NATO è più forte e il mondo più sicuro, un messaggio che è stato ascoltato in tutto il mondo. Anche dagli avversari dell’Occidente.

Rispetto agli obiettivi che si era posto Israele, quanto è stato effettivamente danneggiato il programma nucleare iraniano e che possibilità ci sono che il conflitto riprenda?

Non avremo una risposta chiara alla prima domanda finché non ci saranno valutazioni più precise e definitive dell’impatto delle operazioni militari israeliane. Ciò detto, molte delle polemiche di questi giorni, compresa quella sull’uranio arricchito del sito di Fordow, che non è ancora chiaro se sia stato spostato prima degli attacchi, si concentrano principalmente sul risultato dell’attacco americano, che è solo una parte, seppur non secondaria, della distruzione del programma nucleare iraniano. Gli israeliani, infatti, sono comunque riusciti a distruggere la maggior parte delle fabbriche dove venivano prodotte e assemblate le centrifughe di arricchimento, hanno distrutto i siti dove l’uranio veniva riconvertito in metallo, un passaggio indispensabile per assemblare un ordigno nucleare, hanno eliminato sia un grande numero di scienziati di alto rango sia l’archivio stesso del programma nucleare iraniano.

L’Iran quindi, anche se fosse riuscito a salvare l’uranio arricchito, avrà una grossa difficoltà a rimpiazzare tutte quelle componenti, compresa l’esperienza e il sapere che erano conservati nelle teste degli scienziati, nei loro appunti e nei documenti accumulati in quarant’anni di programma nucleare. Nel peggiore dei casi, insomma, l’Iran potrebbe aver mantenuto una scorta di uranio arricchito e una piccola capacità di arricchimento; nel migliore, tutto è stato completamente degradato o distrutto.

Quindi, anche se viene difficile poter stimare quanto il programma sia stato ritardato in termini di settimane, mesi o anni, valutazioni che peraltro tengono conto anche di altri fattori quali la volontà politica del regime, il danno è stato sicuramente significativo. Bisogna inoltre considerare che, come hanno detto esplicitamente sia gli Stati Uniti sia Israele, se emergessero indicazioni o segnali di una ripresa di queste attività nucleari, sarebbe molto plausibile una ripresa dei bombardamenti da parte americana e israeliana.

Tornando sulla questione di Fordow, un’ultima considerazione: gli israeliani hanno potuto realizzare la propria operazione grazie a un minuzioso lavoro d’intelligence durato anni, che ha permesso loro di identificare e mappare non solo i siti nucleari nascosti, ma anche altri anelli della catena di montaggio che non erano necessariamente noti all’AIEA, non avendo materiali nucleari: centri di studio e di ricerca e fabbriche. Le informazioni di intelligence, poi, hanno permesso anche di eliminare le figure di spicco del regime e del programma nucleare con un livello di precisione stupefacente, al punto di sapere in quale stanza del loro appartamento stessero dormendo. Di fronte a tutto questo, sarebbe incredibile che gli israeliani si siano lasciati sfuggire 400 kg di uranio arricchito. Può darsi che gli iraniani li abbiano effettivamente rimossi, e può altrettanto darsi che americani e israeliani sappiano benissimo dove si trovino ora.

In conclusione, non solo il programma nucleare iraniano ha subito danni ingenti, ma ora i rischi per ricostruirlo sono molto più grandi.

Israele ha dichiarato che rovesciare il regime iraniano non era uno degli obiettivi dell’operazione, ma un possibile effetto collaterale sperato. Come il conflitto ha cambiato i rapporti di forza interni e come ha reagito il popolo in Iran?

È ovviamente difficile sapere con precisione cosa accade in Iran, dove il regime ha sostanzialmente bloccato l’accesso a Internet per tutta la durata della campagna militare israeliana e represso duramente chi ha provato ad aggirare il blocco con soluzioni come Starlink. Il fatto stesso però che siano dovuti ricorrere a queste misure è un indice di una difficoltà interna. Inoltre, l’eliminazione di decine di gerarchi e scienziati e di centinaia di Guardiani della Rivoluzione, i famigerati pasdaran, in particolare con l’attacco sulla loro sede centrale a Teheran, hanno esposto la vulnerabilità del regime e gli creerà per questo problemi. Un segnale a riguardo arriva dall’immediata ondata di arresti e repressione messa in atto in Iran, che è stata giustificata come sempre con le accuse di spionaggio, ma che in realtà viene usata per incutere paura nella popolazione e stroncare il dissenso.

Ci sarà sicuramente anche una resa dei conti tra esercito, pasdaran e religiosi. Ci saranno accuse di tradimento e recriminazioni. Queste divisioni possono generare risultati diversi: potrebbero portare a un colpo di stato interno, a una guerra intestina di una fazione contro l’altra, oppure a un riconsolidamento del regime. Se vogliamo possiamo fare un paragone con tre episodi della storia contemporanea, in cui tre dittature subirono forti contraccolpi dalla sconfitta militare, ma con esiti diversi. La guerra delle Falkland fece cadere dopo circa un anno la giunta argentina e la guerra del Kosovo decretò la fine di Milošević, mentre la guerra del Golfo provocò insurrezioni curde e sciite in Iraq, purtroppo non sostenute dalla coalizione alleata e perciò represse dall’allora regime di Baghdad. Saddam Hussein rimase in quel caso al potere, anche se in Kurdistan fu instaurata la no-fly zone che rese la regione di fatto indipendente.

La rete di milizie proxy dell’Iran, come Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e i gruppi armati sciiti iracheni, ha fornito un sostegno quasi nullo a Teheran nel conflitto. Solo gli Houthi hanno lanciato alcuni missili verso Israele, con effetti nulli. Sicuramente sia i miliziani libanesi sia quelli yemeniti sono stati indeboliti dalle operazioni militari israeliane e alleate contro di loro dei mesi scorsi. Quali valutazioni li hannoportati a non entrare nel conflitto a fianco dell’Iran.

Credo che il fattore più importante sia stata la dissuasione esercitata dalle operazioni israeliane contro Hamas ed Hezbollah dal 7 ottobre in avanti e da quelle americane contro gli Houthi tra marzo e aprile, che li hanno profondamente indeboliti sul piano militare e hanno generato una situazione in cui un nuovo loro intervento a sostegno di Teheran avrebbe avuto conseguenze per loro ancora più devastanti. Questo peraltro ora è successo anche con l’Iran: fino al 12 giugno scorso, infatti, un attacco diretto al regime degli ayatollah era considerato impensabile. Gli scambi di missili e droni tra Iran e Israele lo scorso anno, infatti, si sono svolti in un contesto diverso, dove la precedente presidenza statunitense ha limitato la reazione israeliana: Joe Biden disse testualmente a Netanyahu, che voleva proseguire lo scontro, di fermarsi e “prendere come una vittoria” il fatto che tutti i missili e droni iraniani fossero stati neutralizzati senza causare danni in Israele. Dopo quello che è successo nelle scorse settimane, Israele ora sa di avere non solo l’appoggio, ma anche la disponibilità a un intervento militare diretto, degli Stati Uniti in caso di una ricostruzione del programma militare iraniano.

Poi certo, questo potenziale di deterrenza non vuole dire che la situazione non possa cambiare in futuro: l’Iran sta già cercando di riarmare Hezbollah. Ma almeno in questo momento, i danni subiti fin qui sia da Teheran sia dalle milizie della sua rete è tale da aver lasciato queste ultime molto vulnerabili, e per questo ritengo non abbiano preso parte al conflitto. Questo è un segno dell’errore strategico che il regime ha commesso: Hezbollah, in particolare, era la prima linea di difesa e di dissuasione contro un attacco israeliano all’Iran. Avendo speso questo asset prima di questo scontro, quando Israele ha attaccato, la strada per Teheran, metaforicamente, era senza ostacoli.

I lanci di missili israeliani hanno provocato danni seri in Israele, sia materiali sia umani. Quanto questo fattore ha influito sulla decisione di Gerusalemme di aderire al cessate il fuoco proposto da Washington? E quanto questa vulnerabilità potrebbe dissuadere il popolo israeliano dall’appoggiare una ripresa eventuale delle ostilità?

Ci sono stati diversi fattori, tra cui sicuramente l’assottigliamento dell’arsenale di missili intercettori e la pressione americana. Credo però che abbia pesato di più nella decisione del governo israeliano il raggiungimento dei principali obiettivi dell’offensiva, compresa la distruzione per mano americana dei siti nucleari più inespugnabili, tanto più che Israele aveva inizialmente preventivato perdite più pesanti e un successo più contenuto della sua campagna.

Quindi è vero che i missili iraniani hanno sicuramente causato vittime, ma in misura minore di quanto si temesse e senza colpire nessun obiettivo strategico, pur causando distruzione in molte zone residenziali. Nel complesso non si sono rivelati un’arma di dissuasione efficace come si pensava. Se gli iraniani dovessero riuscire a ricostruire e avanzare nel loro programma missilistico, magari acquisendo tecnologia dell’estero per migliorarne precisione e gittata, allora il timore della popolazione israeliana diventerebbe più rilevante, e quindi penso che potremmo aspettarci in tal caso un’interruzione del cessate il fuoco con nuovi attacchi israeliani e possibilmente americani. Sicuramente, nei prossimi mesi vedremo un incremento delle attività clandestine da parte israeliana per sabotare la ricostruzione dell’arsenale balistico iraniano.

A questo riguardo, per anni Israele e Iran hanno combattuto quella che è stata definita “una guerra nell’ombra”, con sabotaggi, spionaggio e azioni offensive mirate. Possiamo prevedere che il conflitto ora torni a riaccendersi su questo piano? L’Iran potrebbe attuare o commissionare attentati terroristici, come quello contro l’Asociación Mutual Israelita Argentina di Buenos Aires nel 1993?

Assolutamente sì. Peraltro, in questi ultimi anni abbiamo visto un aumento dei casi in cui l’Iran ha assoldato organizzazioni criminali transnazionali per compire attentati terroristici sia contro i dissidenti all’estero sia contro obiettivi americani, israeliani ed ebraici. Gli iraniani hanno una rete occulta estesa in tutto il mondo, più forte in alcune regioni e meno in altre, ma che passa anche per le ambasciate iraniane e per la diaspora libanese sciita, almeno la parte che appoggia Hezbollah. Si alleano inoltre con movimenti, ONG e partiti politici in tutto il mondo che condividono la loro ideologia o l’odio per gli Stati Uniti e Israele. Quindi hanno sicuramente tutte le capacità per compiere questo tipo di azioni. Peraltro, essendo stata la Repubblica Islamica praticamente da subito sottoposta a sanzioni economiche, è diventata esperta nell’aggirare gli ostacoli legislativi e i controlli per procurarsi le tecnologie che gli servono, e ora penso raddoppieranno i loro sforzi in tal senso.

Dall’altro lato, finché sopravvive il regime islamico in Iran non penso che gli israeliani desisteranno nelle loro operazioni clandestine, e la guerra per così dire “fredda” continuerà. Mentre ritengo stia recedendo la possibilità di un nuovo conflitto convenzionale tra i due paesi, diretto o attraverso la rete delle milizie filoiraniane.

A livello internazionale, gli Stati Uniti hanno nettamente riconfermato il loro sostegno a Israele. L’Europa invece si è mostrata divisa sulla posizione da adottare rispetto al conflitto: ad esempio la Germania ha appoggiato pienamente l’operazione israeliana mentre la Francia è stata critica, rispecchiando anche le crescenti divisioni sul conflitto a Gaza. Come pensa evolveranno quindi i rapporti tra Israele e i paesi europei?

Continueranno a essere caratterizzati da alti e bassi e con diverse modalità. Alla fine, nonostante i tentativi di presentarsi come un’entità con una politica estera unita, che le dia la possibilità di agire come un attore globale, l’Unione Europea è composta da stati sovrani che conservano con gelosia la loro prerogativa di condurre, almeno in parte, le proprie relazioni diplomatiche e i loro interessi, che sono diversi. Israele è sempre stato capace di giocare bene su questo piano, sfruttando i buoni rapporti con alcuni paesi dell’Europa centrale, che sono entrati nell’Unione più di recente, anche se ormai si parla di vent’anni fa, e che rimangono più sensibili alle ragioni di Gerusalemme su Gaza, ma anche sull’Iran, rispetto a Spagna o Francia.

Il buon successo dell’operazione contro il nucleare iraniano rappresenta comunque un sollievo per tutti in Europa, ma non credo ci saranno grandi cambiamenti nella postura diplomatica dei diversi paesi che ne fanno parte nel corso dei prossimi mesi. Non vedo l’Europa capace di adottare una posizione univoca su nessuna di queste questioni: non ci riuscirà neanche sul mantenimento dell’accordo di associazione con Israele, che è osteggiato ad esempio dall’opposizione italiana e dal governo spagnolo, ma sostenuto dal governo italiano e da altri stati membri. Forse su Gaza si potrebbe arrivare a una posizione più condivisa, ma è una questione su cui alla fine avranno molto più impatto gli Stati Uniti e i paesi del Golfo.