Accuse reciproche di fascismo tra Trump e Harris. In uno spot, un sopravvissuto all’Olocausto difende l’ex Presidente

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di Marina Gersony
A pochi giorni dal cruciale Election Day del 5 novembre, il duello tra Donald Trump e Kamala Harris si accende, dando vita a una campagna elettorale senza precedenti, caratterizzata da accuse incrociate di «fascismo» e una retorica sempre più infuocata. L’ultimo capitolo di questa aspra battaglia lo scrive lo staff di Trump, che risponde a una recente dichiarazione di Harris, la quale ha definito l’ex presidente «fascista» durante un evento pubblico su CNN.

La controffensiva arriva con uno spot che non lascia spazio ad ambiguità: in primo piano appare Jerry Wartski, 94 anni, sopravvissuto alla Shoah, che rivendica il diritto di smentire Harris con il peso della sua storia personale. «Adolf Hitler invase la Polonia quando avevo 9 anni – inizia Wartski nello spot –. Uccise i miei genitori e gran parte della mia famiglia. So più cose su Hitler di quante Kamala saprà mai in mille vite».

Con parole cariche di dolore e indignazione, Wartski, che sfoggia il numero tatuato sul braccio ad Auschwitz, accusa Harris di oltraggio alla memoria delle vittime del nazismo: «Accusare Trump di essere come Hitler è la cosa più assurda che abbia sentito in 75 anni di vita negli Stati Uniti – dichiara –. Lei deve delle scuse ai miei genitori e a tutti quelli che sono stati assassinati da Hitler». Il messaggio è inequivocabile e sembra toccare un nervo scoperto in un’America sempre più divisa e polarizzata.

Questa dichiarazione segna solo uno dei numerosi capitoli di una campagna elettorale che ha trasformato l’accusa di “fascismo” in una delle sue armi principali. Kamala Harris ha attribuito l’etichetta a Trump per la prima volta proprio giorni fa, rispondendo in diretta su CNN alla domanda se considerasse Trump un fascista: «Sì, lo credo – ha detto con fermezza –. Gli americani credono nella democrazia e nel non avere un presidente che ammiri i dittatori e sia un fascista». E così, la parola “fascismo” diventa un campo di battaglia, un’etichetta con cui Harris tenta di delineare Trump come una minaccia per i valori democratici americani.

Ma Trump non rimane a guardare e rilancia la palla nel suo campo, ricambiando con un linguaggio altrettanto duro e accusando Harris di essere, a sua volta, una «fascista» e un’«estremista di sinistra». In diversi comizi, l’ex presidente ha descritto Harris come una «marxista, comunista, fascista, socialista» e ha sostenuto che eleggerla sarebbe il preludio alla fine dell’America come la conosciamo. In Arizona, Trump ha dichiarato: «Questi fascisti di estrema sinistra vogliono distruggere l’America. Se Harris vince, non avremo più un Paese». Parole pesanti, che risuonano nelle piazze e che cercano di galvanizzare il suo elettorato dipingendo la vice presidente e candidata dem come il volto di una sinistra radicale che minaccia i valori tradizionali americani.

È interessante notare come, in un clima politico così teso, il termine “fascismo” abbia assunto un significato quasi elastico, piegato e adattato per rappresentare tutto ciò che ciascun candidato vede come male assoluto. Uno sguardo ai sondaggi sembra indicare quanto questa retorica stia facendo breccia nell’elettorato: una recente indagine di ABC ha rivelato che metà degli elettori registrati considera Trump un fascista, un dato che lascia intendere come questa preoccupazione possa influenzare in modo significativo le elezioni.

Curiosamente, però, il sondaggio rivela anche che un elettore su cinque attribuirebbe l’etichetta di “fascista” a Harris. In altre parole, il termine viene usato con una frequenza e un’intensità tali da creare quasi una confusione di significati, svuotando di valore una parola che storicamente ha rappresentato una delle pagine più buie dell’umanità.

Come sottolinea Jta.org, lo spot di Wartski sembra rivolto principalmente all’elettorato ebraico, un gruppo demografico che riveste un’importanza crescente in alcuni Stati in bilico. Nel video, una voce fuori campo chiede a Wartski perché il popolo ebraico dovrebbe sostenere Trump. La risposta di Wartski è appassionata e diretta: «Perché è un Mensch», il noto termine yiddish che significa persona di onore e integrità. A suo dire, Trump ha sempre dimostrato amicizia verso Israele e il popolo ebraico, senza mai tradirne la fiducia. In un contesto politico così polarizzato, il termine “Mensch” è utilizzato quasi come un sigillo di garanzia, una parola che richiama valori profondi e che tenta di dipingere Trump come un alleato leale e sincero.

Wartski è un repubblicano che ha donato ampiamente ai repubblicani, tra cui Trump, nonché ai politici democratici locali, secondo i registri finanziari della campagna elettorale. All’inizio di questo mese, ha anche accompagnato l’ex Presidente in visita al Rebbe’s Ohel, la tomba dell’ultimo rabbino Chabad-Lubavitch, Menachem Mendel Schneerson.

Con una lunga carriera nel settore immobiliare e una vita complessa alle spalle, Wartski è una figura singolare e fuori dal comune: è un sopravvissuto all’Olocausto che non solo rappresenta un pezzo di storia vivente, ma incarna anche l’eredità di chi ha visto e subito gli orrori del fascismo. È significativo, quindi, che proprio lui venga scelto come portavoce per denunciare l’uso di quella parola, “fascista”, in contesti dove il suo significato rischia di essere abusato e banalizzato. «Non ci sono più molte persone che possono raccontare questa storia – disse Wartski in un’intervista nel 2020 a Fox News –. Le storie che senti sono irreali e incredibili, e quindi devi parlare».

Tutto questo lascia aperte delle domande inquietanti su dove stia andando la politica americana. Qual è il costo di un linguaggio così estremo, che piega il passato a fini politici e rischia di svuotare parole cariche di significato? E quanto può resistere un elettorato sottoposto a una campagna elettorale che somiglia sempre più a un duello personale, lontano dalle vere questioni politiche? In un momento storico così delicato, l’uso di termini come “fascismo” diventa una scelta retorica rischiosa, che può rivelarsi un’arma a doppio taglio.

Di fronte a questo scenario, l’America sembra trovarsi di fronte a un bivio: da un lato, la politica diventa spettacolo, fatta di accuse al vetriolo e di colpi di scena; dall’altro, rimane l’urgenza di un dialogo reale, che sappia affrontare i temi concreti e le ansie di un popolo che guarda con timore al futuro. Entrambe le campagne, in questa fase finale, sembrano più interessate a vincere la battaglia delle percezioni che a discutere di proposte reali. Ma quando la polvere si poserà, sarà interessante vedere se questo linguaggio estremo avrà realmente fatto breccia nell’animo degli elettori o se, alla fine, avrà solo contribuito a erodere ulteriormente la fiducia in un sistema politico già fragile.