Talò: l’unicità di Israele è una grande sfida

Italia

di Ruth Migliara

È stato inviato speciale della Farnesina per il Pakistan e l’Afghanistan, dopo essere stato per quattro anni Console generale a New York, e aver ricoperto varie mansioni istituzionali in Italia e all’estero. In occasione di una serata al Tempio Centrale di via Guastalla organizzata dal Keren Kayemet e dalla Fondazione Corriere della Sera, abbiamo incontrato Francesco Talò, neo-ambasciatore italiano in Israele, che da agosto prenderà il posto di Luigi Mattiolo a Tel Aviv.

Che cosa si aspetta dall’esperienza in Israele?

Tanto, sia in termini professionali che umani. Una sfida importante ma di grande responsabilità. Sto cercando di prepararmi il più possibile al confronto con l’unicità di Israele, il cui rapporto bilaterale con l’Italia è molto cresciuto negli ultimi anni, grazie all’opera dei miei predecessori. In particolare l’attuale Ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha fatto molto in questo senso come ambasciatore in Israele tra il 2002 e il 2004, e mi ha molto incoraggiato. L’Italia e Israele sono paesi amici, mediterranei, che possono collaborare in molti ambiti, dalla ricerca alla tecnologia, dall’agricoltura alla gestione delle risorse idriche.

Quali i progetti condivisi oggi sul tappeto?

Sono in fase di ascolto, è ancora presto. Anche se cercherò di muovermi sulla stessa linea di Luigi Mattiolo. Penso a una collaborazione a 360 gradi, su vari livelli. A questo proposito ho incontrato il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e credo che l’Expò potrà essere una grande occasione di sviluppo e approfondimento dei rapporti tra Milano e Israele. Più in generale sono molte le aree di congiunzione tra i due paesi, sia in campo economico e commerciale, sia in campo culturale. In particolare la ricerca scientifica e tecnologica, in cui Israele è all’avanguardia, potrà essere un particolare ambito di scambio e collaborazione. Un ambito tuttavia per me prioritario è quello della diffusione della lingua italiana. Far conoscere l’italiano è sicuramente un mezzo per ottenere risultati di lungo periodo. Tanto più che oggi, nelle scuole israeliane, viene insegnata ed è curricolare, quindi materia d’esame alla maturità israeliana, la bagruth. Una lingua è un ponte, una chiave d’ingresso: nella cultura, nel voler viaggiare in Italia e nell’acquisto di manufatti e prodotti italiani. Investire sulla diffusione di una lingua può creare una sorta di affezione, di fidelizzazione. E poi la comunità degli italiani in Israele è vivace e attiva.

Ha già dei progetti con gli italkim?

Costituiscono un ponte naturale tra i due paesi per favorire scambi di visite tra i giovani, che possano mantenere viva la lingua e la cultura italiana in Israele. Noi dobbiamo far conoscere la ricchezza delle nostre comunità ebraiche italiane nella loro specificità, superando i limiti dell’esiguità numerica. Per costruire un ponte occorre la collaborazione di molti ed è per questo che, nel cercare di farmi rappresentante delle diverse comunità ebraiche italiane, vorrei conoscere il più possibile la loro specificità. Su questa linea si colloca questo incontro con la Comunità ebraica di Milano ed i successivi in altre città.

Cosa può fare l’Italia per il Processo di Pace?

L’Italia sta lavorando incessantemente, anche in seno all’Unione Europea, per la ripresa del dialogo fra le parti, che conduca ad una soluzione negoziata secondo il principio dei due Stati per due popoli nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza di Israele e in un contesto di normalizzazione dei rapporti con i paesi della regione.

Come giudica l’impegno dell’Italia come forza di interposizione in Libano?

L’impegno in Libano, con un ruolo guida nella missione per il mantenimento della pace, è apprezzato sia in Europa sia nei paesi della regione e nell’ambito delle Nazioni Unite. Rappresenta un’azione concreta ed efficace, coerente con l’attività politica svolta dall’Italia nel Mediterraneo così come in altre aree di crisi, come l’Afghanistan.

Lei è stato in Pakistan e Afghanistan: quale futuro si prospetta in quella regione?

La mia esperienza è legata ad una precisa area di crisi, dove esiste un impegno globale della Comunità Internazionale perché in Afghanistan non si ripetano gli errori passati. Non si sottolinea mai abbastanza l’entità di questo impegno, che sta già dando evidenti risultati pur all’interno di una strategia su lungo periodo. L’Italia è stato il primo paese occidentale a instaurare un rapporto di partenariato strategico con l’Afghanistan con un accordo bilaterale nel gennaio 2012; ed è stata seguita in questo dalla Francia e dalla Gran Bretagna e successivamente da altri paesi. Questo per creare una rete di protezione di fronte agli errori passati scaturiti da un’attenzione insufficiente per un paese strategicamente cruciale e per un popolo che ha sofferto per oltre 30 anni. Un popolo che è stato vittima del fanatismo e del terrorismo, che ci ha colpito tutti l’11 settembre, quando ci siamo giustamente sentiti tutti newyorkesi.

Su che basi è possibile instaurare dunque un dialogo tra Islam e Occidente?

Sulla base di comuni valori universali, come la cultura e i diritti umani. Esistono infatti valori condivisi su cui possiamo gettare le fondamenta di un dialogo: la cultura innanzi tutto. Far conoscere reciprocamente gli aspetti più nobili della nostra e della loro cultura può essere infatti un canale di comunicazione.