Sinodo: l’odio antico e la paura del domani

Italia

 

Un intervento di Stefano Levi Della Torre.

Si è tenuto a Roma in Ottobre il Sinodo per il Medio Oriente, le cui conclusioni hanno lasciato amarezza e rabbia nel mondo ebraico e in Israele. E soprattutto sconforto e delusione sulla possibilità che il dialogo ebraico-cristiano abbia ancora un senso. Tacitate le voci fuori dal coro che hanno denunciato la difficoltà per i cristiani di vivere “sotto la spada dell’Islam” (“Il Corano dà al musulmano il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli” e “ordina di imporre la religione con la forza, con la spada” è stato il grido di dolore del vescovo libanese Monsignor Rabula Antoine Beyluni, censurato anche dall’Osservatore Romano), il documento finale chiede all’Onu l’impegno per porre fine all’occupazione israeliana, appellandosi alle risoluzioni sui confini del 1967. Ma soprattutto lancia un monito: “non utilizzare le Sacre Scritture per giustificare l’occupazione di Israele della terra palestinese”. Un attacco teologico e politico che denuncia, al di là della retorica, il perdurare di un sentimento antigiudaico. E la paura, quindi la debolezza, nei confronti dell’Islam per i cristiani che vivono nei paesi islamici; una paura che la cronaca dimostra tutt’altro che infondata.
Sulle conclusioni del Sinodo, il Bollettino ha chiesto un commento allo scrittore, architetto e saggista Stefano Levi Della Torre.

A rischio il dialogo ebraico-cristiano. Si è chiuso in Vaticano il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente. Israele è stato attaccato sia sul piano politico sia su quello teologico

Nel “Messaggio” del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente del 22 ottobre 2010 si dice agli ebrei: “Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese. Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nella quale vivono gli israeliani (3,2)…Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà (11). È tempo di impegnarci insieme per una pace sincera, giusta e definitiva” (8). Fin qui il riconoscimento dell’esistenza di Israele sembra chiara.
Poi si legge: “Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche a giustificazione delle ingiustizie” (8). Questo punto è stato illustrato ufficialmente dall’arcivescovo Bustros di Newton (USA) nel presentare i documenti del Sinodo: “Il concetto di Terra promessa non può essere utilizzato per espellere i palestinesi. Vogliamo dire che la promessa di Dio nell’Antico Testamento sulla Terra promessa, per noi cristiani è stata abolita dalla presenza di Cristo”. La nostra lettura della Bibbia -dice Bustros agli ebrei- ha sostituito la vostra.
Il cristianesimo sostituisce e destituisce l’ebraismo: siamo tornati alla dottrina della sostituzione che sembrava superata dal concilio Vaticano II. Ma questa destituzione teologica vuole forse destituire il diritto di Israele ad esistere? Sembrerebbe, perché l’arcivescovo continua: “Quel che vogliamo dire è una questione politica: non bisogna basarsi sulla Sacra Scrittura per giustificare l’occupazione da parte di Israele della terra palestinese”. Qui c’è un’ambiguità di fondo: si allude all’occupazione dei “territori” o a tutta la Palestina mettendo in discussione il diritto di Israele ad esistere?
Ne risulta un ritorno indietro sul piano teologico biblico, e un’ambiguità riaffiorante sul piano politico. Con che interlocutore ci confrontiamo? Con quello del “Messaggio” o con l’arcivescovo che ha dato un’interpretazione ufficiale a un punto cruciale del “Messaggio”?
Le ragioni politiche e bibliche si intrecciano nell’esistenza di Israele.
I risorgimenti nazionali e l’antisemitismo secolarizzato sono i due fenomeni che hanno ispirato il sionismo, l’uno in positivo, l’altro in negativo. Una necessità storica prima che giuridica fonda il diritto di Israele ad esistere.
La scelta biblica di Erez Israel come suo luogo di nascita è giustificata dal fatto che in quanto cosa nuova ha bisogno di una tradizione di secoli per dare spessore e credibilità al proprio radicamento. La alyà può essere così sentita come un ritorno, ripresa di un filo solo temporaneamente spezzato. Inoltre l’esistenza di Israele non è più neppure, come ai suoi inizi, una decisione politica: gli israeliani sono giunti ormai alla loro quarta generazione, e il loro diritto di esistere si basa, in più, sul fatto di esserci come nazione di nati in quella terra. Quanto all’ingiustizia, io penso che Israele nascendo abbia sì compiuto un’ingiustizia verso i palestinesi sottraendo loro una terra, ma ciò era necessario per esistere. Non c’è però uno Stato al mondo che si sia instaurato senza ferire il diritto di qualcuno. Altra cosa riguarda gli insediamenti nei “territori”. Perché un conto è compiere un’ingiustizia necessaria ad esistere, altro è compiere ingiustizia perché altri non abbia spazio per esistere.