Concerto del Primo Maggio a Roma: i Patagarri gridano “Palestina libera” sulle note di Hava Nagila. È polemica

Italia

di Davide Cucciati
Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha denunciato “l’appropriazione della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione” e definendo l’esibizione “sinistra e macabra”. “Per noi macabro è un mondo nel quale migliaia di bambini vengono ammazzati, gli ospedali bombardati, i civili sterminati”, la risposta della band.

Dovrebbe costituire un vincolo morale ineludibile il fatto che, almeno il primo maggio di ogni anno, il lavoro, nella sua concretezza storica ed economica, resti al centro della narrazione pubblica. Eppure, anche quest’anno, il concerto di Roma, promosso dalle principali sigle sindacali italiane, ha deluso tale aspettativa. Sul palco allestito per celebrare la dignità del lavoro si è levata, invece, una voce lontana dal contesto e profondamente divisiva, quella del gruppo Patagarri, che ha scelto di intonare lo slogan “Free Palestine, Palestina libera” sulle note di Hava Nagila, brano della tradizione musicale ebraica, fortemente connotato sul piano identitario.
Ricordiamo che in un concerto a Milano la stessa band aveva infiammato il pubblico al grido di m “Free Palestine”

La reazione del mondo ebraico è stata immediata e durissima. Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha parlato di un gesto ignobile, denunciando “l’appropriazione della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione” e definendo l’esibizione “sinistra e macabra”. Fadlun ha aggiunto che “di fronte a queste provocatorie manifestazioni di intolleranza, sentiamo lo spazio delle nostre libertà restringersi inesorabilmente. Ma a perdere in libertà non siamo solo noi, è l’intera società civile”.

In termini analoghi si è espresso Ilan Boni, vicepresidente della Comunità Ebraica di Milano, il quale ha ricordato come “i nemici peggiori della nostra storia siano stati proprio coloro che hanno utilizzato la nostra cultura contro di noi”. Noemi Di Segni, presidente dell’UCEI, ha rincarato la dose: “Una canzone ebraica che ha come significato la gioia di stare insieme è stata appositamente stravolta con l’effetto di creare divisioni e generare odio antisemita anziché mettere in campo ogni sforzo per la convivenza tra i popoli, come le Comunità ebraiche in Italia cercano di fare in ogni ricorrenza”. Inoltre, Di Segni ha puntato il dito contro le organizzazioni sindacali promotrici e la televisione pubblica: “Siamo attoniti per quanto avvenuto oggi dal palco istituzionale del Primo Maggio, organizzato dalle sigle sindacali in una ricorrenza ufficiale dell’Italia, e senza vigilanza da parte della Rai che ha poi trasmesso il programma”.

Il giorno dopo l’esibizione, sono intervenuti direttamente anche i Patagarri, pubblicando una lunga dichiarazione su Instagram: “Siamo esseri umani che non riescono a stare in silenzio di fronte alla morte e alla distruzione, musicisti che hanno imparato dalla musica a cercare quello che unisce e non quello che divide, a far funzionare un insieme composto da diversità. Abbiamo suonato una canzone della tradizione ebraica, che da tempo fa parte del nostro repertorio e ne fa parte perché noi non siamo mai stati contro una popolazione o l’altra. Ma abbiamo sentito la necessità di privarla del testo originario, che parla della gioia di stare insieme, per sottolineare che da troppo tempo, nel Medio Oriente, quella gioia non esiste più. Abbiamo così voluto testimoniare le storie dei civili, cioè di chi paga il prezzo più alto durante le guerre, perché vittime innocenti. Qualsiasi report internazionale sottolinea che il prezzo in termini di morti, feriti e mutilati, che la comunità palestinese sta pagando in seguito alla guerra è inaccettabile. Con la nostra testimonianza non abbiamo fatto altro che ribadire dati oggettivi. A chi ha definito la nostra esibizione di ieri macabra rispondiamo che per noi macabro è un mondo nel quale migliaia di bambini vengono ammazzati, gli ospedali bombardati, i civili sterminati. Un mondo nel quale chi chiede la pace viene accusato di creare divisioni e di generare odio antisemita. Mettiamoci allora d’accordo su quali sono le parole giuste per chiedere che i bambini non muoiano più, che gli ospedali non vengano più bombardati, senza essere accusati di invocare la distruzione del popolo israeliano, senza finire in questa trappola retorica dell’antisemitismo, accusati per tramite di sofismi insopportabili, mentre la gente continua a morire”.

 

Durante il concerto, anche il pubblico ha voluto lanciare un segnale politico: nel corso dell’esibizione di Ghali, già noto per aver parlato di “genocidio” sul palco di Sanremo 2024, ignorando che la Corte internazionale di giustizia non si sia ancora pronunciata in via definitiva sul punto, è stata srotolata una grande bandiera palestinese, ulteriore segnale di quanto la questione mediorientale abbia finito per sovrapporsi, anche visivamente, al tema originario della manifestazione.

Il significato del Primo Maggio e il paradosso del concertone

Fu nel settembre del 1866, durante il congresso della Prima Internazionale riunito a Ginevra, che venne approvata una proposta di straordinaria portata simbolica e sociale: “otto ore come limite legale dell’attività lavorativa”. A raccogliere quella istanza furono le organizzazioni dei lavoratori statunitensi che a Chicago, il primo maggio 1867, diedero vita a un’imponente manifestazione con diecimila partecipanti chiedendo con determinazione ciò che ancora sembrava utopico: un tempo di lavoro umano, sostenibile e compatibile con la dignità dell’esistenza. Il primo maggio 1886, su iniziativa della Federation of Organized Trades and Labour Unions, circa quattrocentomila operai statunitensi incrociarono le braccia per dare corpo alla scadenza simbolica fissata due anni prima. A Chicago, ottantamila lavoratori sfilarono e, nei giorni successivi, la repressione assunse toni brutali. Infatti, vi furono morti, feriti, arresti, fino all’impiccagione, l’undici novembre 1887, di quattro esponenti anarchici, condannati pur in assenza di prove concrete. Nacque così il mito dei “martiri di Chicago”, destinato a permeare la coscienza collettiva del movimento operaio internazionale.

Fu per onorare tale eredità che, nel luglio 1889, il congresso della Seconda Internazionale, riunito a Parigi, deliberò l’istituzione di una manifestazione simultanea in tutti i Paesi, fissandone la data al primo maggio dell’anno successivo. Il primo maggio 1890, per la prima volta, i lavoratori del mondo intero scesero in piazza in un’inedita convergenza simbolica e politica. L’anno successivo, anche a Roma, in piazza Santa Croce in Gerusalemme, la celebrazione fu accompagnata da duri scontri con le forze dell’ordine, che provocarono morti, feriti e centinaia di arresti. Nonostante ciò, l’eco di quella giornata si radicò nelle coscienze popolari, al punto che, nell’agosto del 1891, la Seconda Internazionale decise di rendere la ricorrenza permanente, come “festa dei lavoratori di tutti i paesi”, giornata di rivendicazione, solidarietà e consapevolezza.

Il paradosso, dunque, è evidente. Sul palco di un concerto sindacale, nel giorno simbolo della lotta per i diritti del lavoro, si inneggia alla liberazione della Palestina utilizzando una melodia ebraica, replicando una forma di appropriazione culturale che, se compiuta in altri contesti, verrebbe immediatamente stigmatizzata come colonialismo simbolico. Tuttavia, poiché a compierla è un gruppo giovane, filopalestinese e in sintonia con i codici estetici del momento, la sinistra post-identitaria non solo tollera ma celebra.

La questione, infatti, investe la cultura politica della sinistra occidentale che da tempo appare disorientata, priva di un asse tematico riconoscibile, e sempre più attratta da posture estetiche o simboliche, scarsamente correlate alle reali condizioni di vita delle classi popolari. Il Primo Maggio dovrebbe essere, se ancora ha un senso, la giornata dedicata alla giustizia salariale, alla contrattazione collettiva, alla sicurezza sui luoghi di lavoro e alla redistribuzione della ricchezza. Invece, progressivamente, si sta trasformando in un palcoscenico per slogan identitari e liturgie militanti.

Giorgio Gaber, con lucidità impietosa, aveva colto in anticipo questa deriva, scrivendo: “Quando è moda è moda, non c’è nessuna differenza fra quella del playboy più sorpassato e più reazionario a quella sublimata di fare una comune o un consultorio”. Ancora: “Il conformista sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato”.

 

Nel frattempo, mentre in Italia si utilizza il Primo Maggio per svuotarne il significato originario e a Torino vengono bruciate le bandiere dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e di Israele, proprio in Israele, come riportato da Jewish News Syndicate, il ministro del Lavoro Yoav Ben-Tzur ha firmato, meno di due mesi fa, un provvedimento che innalza il salario minimo mensile a 6.247 shekel, pari a circa 1.700 dollari, dichiarando che “aumentare il minimo salariale durante una guerra è un dovere etico e morale verso i lavoratori che faticano per vivere”. Un aumento che si applicherà, naturalmente, a tutti i lavoratori israeliani, compresi i cittadini arabi.

Altrove, dunque, si continuano a produrre atti normativi in favore delle classi lavoratrici, nel silenzio di chi, da noi, sembra ormai aver rinunciato all’idea che la sinistra debba occuparsi dei salari, delle tutele e delle condizioni materiali di esistenza.