di Anna Balestrieri
L’università italiana è oggi attraversata da un acceso dibattito sulla legittimità — e sui limiti — dell’impegno civile all’interno del mondo accademico. A infiammare la discussione è il recente appello firmato da oltre 200 docenti dell’Università di Messina, rivolto alla rettrice Giovanna Spatari, per chiedere l’interruzione immediata dell’accordo di cooperazione con la Hebrew University di Gerusalemme. I firmatari accusano l’ateneo israeliano di “collaborare con lo sterminio a Gaza”, parlano di “soluzione finale organizzata dallo Stato di Israele” e definiscono l’intesa stipulata nel 2021 una “macchia nerissima” sulla coscienza dell’Università dello Stretto.
Una richiesta forte: “Nessun ponte da costruire”
Nella lettera-appello si legge: “La popolazione muore letteralmente di fame; a decine, ogni giorno, si spengono, crudelmente denutriti, bambini per una precisa decisione politica e militare del governo Netanyahu”. I docenti non si limitano alla denuncia: reclamano una rottura formale e pubblica con tutte le istituzioni accademiche israeliane, considerate “in prima linea nello sviluppo dell’economia del genocidio”. La Hebrew University viene esplicitamente accusata di fornire addestramento, tecnologie, know-how e legittimazione ideologica alle politiche coloniali del governo Netanyahu. Accusa ancor più dolorosa per l’ateneo, eccellenza del paese, che, forse più di tutte le istituzioni dell’accademia israeliana, si fa promotore di una società condivisa tra arabi ed ebrei.
A supporto di queste tesi, i firmatari richiamano il recente provvedimento dell’Università di Pisa che ha sospeso le collaborazioni con la Hebrew University e la Reichman University, e citano l’impegno crescente di numerose facoltà italiane nel riconsiderare le collaborazioni scientifiche potenzialmente implicate in applicazioni militari. Recentissimo pure l’allineamento pro-pal dell’università di Urbino.
Le reazioni: accuse di antisemitismo e difesa della libertà accademica
Non si è fatta attendere la reazione contraria da parte di associazioni ebraiche italiane e numerosi accademici, che vedono nel boicottaggio accademico una deriva antisemita pericolosa e incompatibile con la vocazione universitaria. L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) ha lanciato un appello in difesa della cooperazione scientifica con Israele: “Quando si arriva a boicottare un’università per la sua appartenenza a un determinato Stato, allora si entra nella pericolosa logica della colpa collettiva”, scrive Luca Spizzichino. “Il dissenso è un diritto sacrosanto, ma esiste una linea sottile tra critica legittima e discriminazione”.
UGEI richiama con forza il principio di libertà accademica come fondamento stesso della democrazia: “Il dialogo non si costruisce mettendo a tacere l’altro, ma ascoltando. L’educazione non è militanza selettiva, ma apertura al confronto”.
Anche un altro gruppo di accademici e ricercatori italiani, tra cui David Meghnagi, Raffaella Rumiati e Lucia Corso, ha firmato un contro-appello per denunciare le iniziative di boicottaggio come “azioni di odio e ostilità”, incompatibili con l’identità dell’università come spazio aperto al dialogo e al confronto critico. “I boicottaggi accademici violano la libertà di ricerca, insegnamento e parola, ostacolano il dialogo tra culture e alimentano la polarizzazione”, si legge nell’appello, che evidenzia il rischio che simili iniziative legittimino “forme di antisemitismo latente”.
Tra coscienza civile e responsabilità democratica
Le università di Firenze, Padova, Milano, Venezia e Torino sono oggi tutte coinvolte, in forme diverse, nel dibattito sull’opportunità di mantenere legami con istituzioni israeliane. Ma mentre alcune realtà — come il Senato accademico della Scuola Normale Superiore — optano per una “valutazione attenta” degli accordi in essere con enti potenzialmente implicati in applicazioni belliche, altre si sono spinte verso decisioni unilateralmente di rottura.
La questione, tuttavia, non può essere ridotta a una semplice opposizione binaria tra “complicità” e “silenzio”, oppure tra “militanza” e “neutralità”. L’università è istituzione pubblica e costituzionale, chiamata a muoversi all’interno di una cornice di responsabilità democratica condivisa, non in conflitto con altri rami dello Stato, come ha ricordato l’appello degli accademici contrari al boicottaggio.
La pace non si costruisce con la censura
A fronte della tragedia umanitaria a Gaza e della crescente polarizzazione nel mondo accademico, emergono due visioni inconciliabili: una che vede nella rottura totale con le istituzioni israeliane una forma di testimonianza etica, e un’altra che difende il confronto come unico strumento legittimo della convivenza universitaria.
Ma se “la sparizione di Gaza lascia senza fiato”, come scrivono i firmatari di Messina, è altrettanto vero che non si costruisce la pace negando la parola all’altro. Come ha affermato l’UGEI: “La libertà accademica non è un privilegio, ma un principio irrinunciabile che va difeso con forza”. E come ricordano gli accademici dell’appello di Tiribocchi: “La pace si costruisce rifiutando la logica della demonizzazione dell’altro”.
Il caso dell’Università di Messina, e gli altri simili che si moltiplicano nel Paese, dimostrano che il mondo accademico non è — e forse non può più essere — neutrale. Ma proprio per questo è chiamato oggi a una sfida difficile: tenere insieme giustizia e rigore, etica e metodo, compassione e responsabilità istituzionale. Non sarà il boicottaggio, né la scomunica reciproca, a fermare l’orrore della guerra. Ma solo un confronto aperto, profondo, e libero dalla tentazione della colpa collettiva.