Tsahal e la guerra delle barbe, il Rapporto Pew e gli arabi: la democrazia israeliana allo specchio

di Aldo Baquis

Il sondaggio Pew che spacca Israele e ne scandaglia gli umori più profondi.
La metà dei sabra che dichiara di voler espellere gli arabi dal Paese. L’ obbligo
di “non portare la barba” sotto le armi e la bagarre in ambito politico e religioso.
Due casi emblematici. E un Paese di minoranze in perenne contrasto tra loro

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Un gigantesco sondaggio di opinione condotto dal centro di ricerca statunitense Pew sta costringendo oggi la società israeliana a guardarsi allo specchio. E a porsi alcune domande, davanti al volto che vede riflesso. Da esso emerge che fra gli ebrei israeliani i pregiudizi anti-arabi sono molto più di radicati di quanto non si pensasse. Alla frase volutamente generica e sfuggente: ‘Gli arabi dovrebbero essere espulsi o trasferiti da Israele’, il 48 per cento degli ebrei israeliani intervistati si sono detti d’accordo, in tutto o in parte. Il 46 per cento erano contrari.
La metodologia del Pew, su questo punto, è stata contestata. Comunque, il Capo dello Stato Reuven Rivlin si è detto riconoscente ai curatori della ricerca: «Questo rapporto – ha detto – dovrebbe essere sottoposto ai nostri governanti. Ci illumina sui problemi che dobbiamo affrontare. Dobbiamo lavorare duro per mettere insime le svariate comunità. Non è concepibile una democrazia per i soli ebrei».
Il quadro generale della società israeliana offerto dal Pew è di un Paese dove è sempre più problematica la convivenza fra la minoranza araba e la maggioranza ebraica. E all’interno di quest’ultima crescono le incomprensioni fra le quattro componenti della società israeliana, i chilonì-laici, i ‘tradizionalisti’-shomer massoret, i nazional-religiosi e gli haredim-ultraortodossi. Nei settori maggiormente legati alla religione, i valori basilari della democrazia “perdono quota”. In questo contesto – nel Rapporto di 200 pagine – sono state dunque formulate un grappolo di domande su una ipotetica espulsione degli arabi. Un’espulsione forzata, militare, o incoraggiamento alla emigrazione, mediante indennizzi? E poi: degli arabi cittadini di Israele, tutti o solo in parte, oppure dei palestinesi della Cisgiordania? Con un eventuale trasferimento in massa verso un futuro Stato palestinese, o nei Paesi vicini? Le domande del Pew sono state formulate in termini vaghi perchè – ha spiegato alla stampa il curatore dell’indagine Allan Cooperman – «volevamo scandagliare gli umori più profondi» Il risultato ha lasciato allibiti: metà degli ebrei israeliani vorrebbero veder scomparire dalle strade, in un modo o nell’altro, la popolazione araba. Un risultato tanto più sconcertante, dato che alla Knesset nessun partito si è mai sognato di proporre apertamente scenari simili. Negli anni Ottanta il partito Kach, del rabbino Meir Kahane, che cercò di trasmettere idee del genere, fu immediatamente messo fuori legge.
Pew ammette che formulando la domanda in maniera diversa – come hanno fatto in passato l’Università di Haifa e il quotidiano Maariv – le percentuali delle risposte positive sarebbero state nettamente più basse, ma comunque sempre troppo alte. E conferma che nel pubblico nazional-religioso, la tolleranza verso la minoranza araba è in calo costante.
Le grandi direttrici dei processi in corso nella società israeliana individuate da Pew sono state dunque condivise dallo stesso Rivlin. «Già un anno fa – ha precisato – parlai delle quattro tribù della nostra società. Nato come uno Stato composto essenzialmente da una maggioranza laica oggi Israele si trova diviso in quattro settori: i laici, gli ultraortodossi, gli arabi e i religiosi moderni», con ciascuno che tende a chiudersi nel proprio mondo, un mondo in cui i matrimoni “misti”, ovvero tra esponenti delle varie tribù sociali in questione, sono estremamente rari.
In una società in continua evoluzione, anzi in ebollizione, i contrasti politici sono sempre più marcati. Fra questi il rapporto del Pew menziona il modo in cui vengono viste e percepite le cosiddette terre contese, ovvero le “colonie”: il 42 per cento pensa che esse contribuiscano alla sicurezza del Paese, mentre il 30 per cento ha una visione diametralmente opposta. E la sensazione che la formula dei Due Popoli-Due Stati abbia speranza di essere realizzata è in calo costante: sia fra gli israeliani sia fra gli arabi di Israele.
Il dilemma della rasatura
Ma non è soltanto il Rapporto Pew a gettare una luce inquieta e poco idilliaca sui sussulti che scuotono oggi la società israeliana. A raccontarne la “sofferenza sociale” giunge ora anche la più recente cronaca. Una società stretta tra l’angoscia di uscire per strada guardandosi le spalle e quella di assistere all’“incendio” dei propri confini esterni. Stretta tra la paura degli accoltellamenti e la crescente complessità di cui si sta caricando lo scenario mediorentale. Una compagine in cui l’equilibrio tra la componente religiosa e quella secolarizzata si fa sempre più precario, una forbice tra le due anime di Israele che si allarga sempre più. Uno degli esempi più clamorosi e sconcertanti è quello della cosidetta “guerra delle barbe”, un casus belli che da un mese attraversa l’esercito. Veri e propri venti di fronda si sono messi a soffiare recentemente proprio dentro Tsahal, sospinti da alcuni rabbanim che hanno incitato esplicitamente i militari alla disobbedienza. All’origine della protesta dai toni fortemente emotivi vi è stata la decisione del capo di stato maggiore, il generale Gady Eizenkot: da domani potranno tenere la barba solo quanti abbiano provveduto a dotarsi di un regolare permesso. Tutti gli altri dovranno presentarsi col volto accuratamente rasato. «Non si può avere un esercito ben disciplinato, se tutti portano la barba», ha teorizzato il portavoce militare, il colonnello Moti Elmoz. Lui stesso la portava nel 1985, quando si è arruolato. Ora non l’ha più. «Ci si abitua», ha assicurato su Facebook. Ma ha così innescato accese proteste nei collegi rabbinici. Citato dal sito Srugim, il rabbino Shlomo Aviner ha stabilito che nell’ebraismo tutti dovrebbero avere la barba e che all’epoca del biblico re Davide un uomo dal volto rasato era oggetto di scherno. Nella tradizione, la lama del rasoio non può toccare la pelle del volto. Ma il rabbino Aviner – e con lui anche il rabbino Eliahu Zini – è andato ben oltre, evocando le immagini dei nazisti che per scherno tagliavano le barbe degli ebrei religiosi. «I vertici del nostro esercito si comportano ora nello stesso modo», si è indignato Zini. Secondo il viceministro della difesa, rabbino Shimon Dahan (un dirigente del partito nazionalista Focolare ebraico dalla lunga barba bianca), la responsabilità della crisi è della Corte Suprema di Gerusalemme: un’istituzione tradizionalmente fedele al rispetto dei diritti civili in Israele. Quando un gruppo di soldati laici le ha fatto appello perchè si sentivano discriminati (per i militari religiosi era facile far crescere la barba, mentre per loro c’erano impedimenti burocratici) i giudici hanno stabilito: “che ci sia una procedura unica per tutti, laici e non”. L’esercito si è allora messo sull’attenti: 13 mila barbe sono state autorizzate, altre 12 mila richieste sono ancora in esame. Fra le righe del testo del colonnello Elmoz si comprende che per i laici il “permesso alla barba” è utilizzato dai comandanti come un privilegio che si concede o si nega al militare, a seconda del suo comportamento. Uno strumento in più per mantenere la disciplina, dunque. Per giorni, il mondo rabbinico ha bombardato di appelli i vertici militari, dal Ministro della difesa Moshe Yaalon in giù per “salvare” ad ogni costo le barbe dei militari religiosi. Secondo il Ministro dell’istruzione Naftali Bennett possono dormire tranquilli: domani nessuno li manderà a radersi. Ma l’episodio illumina intanto una questione più importante: la crescente influenza del mondo rabbinico nelle gerarchie di comando dell’esercito. Un’influenza che potrebbe rivelarsi critica il giorno, ad esempio, che l’esercito ricevesse l’ordine di sgomberare dai territori occupati insediamenti legati all’ebraismo nazional-religioso. Ancora una volta, un caso che tocca da vicino e profondamente, la questione della democrazia interna. (@aldbaq)