Suleimani e il confronto a tutto campo Teheran-Gerusalemme

Israele

di Aldo Baquis, da Tel Aviv

La minaccia dei droni e la ripresa del programma nucleare. Il disimpegno Usa in Medioriente. Il disinteresse (apparente) di Cina e Russia. La leadership crescente dell’Iran nella regione.  Il rafforzamento delle armi convenzionali con tecnologie all’avanguardia, onde foraggiare Iraq, Hezbollah libanesi, ribelli yemeniti. Lo scopo? Aumentare le basi di attacco contro Israele.  Che, intanto, non ha un governo stabile per affrontare i nemici.

Un un tranquillo venerdì di fine novembre, in occasione dell’anniversario della nascita del profeta Maometto e dell’Imam Jafar as-Sadiq (sesto Imam dei musulmani sciiti), in un messaggio ricco di evocazioni religiose, il leader spirituale dell’Iran Aly Khameney ha affrontato, con gli importanti ospiti convenuti a Teheran per la 33° Conferenza dell’Unità islamica, la questione che gli sta più a cuore: “L’abolizione dello Stato di Israele”.
Nel timore che le sue parole potessero essere fraintese, Khameney ha aggiunto: «Noi siamo con il popolo e per l’indipendenza dei palestinesi. Noi non siamo antisemiti. Qui da noi gli ebrei vivono in totale sicurezza». Ad ogni modo ci sono processi storici che hanno una propria inerzia: «Così è avvenuto anche nei Balcani, che dopo 60 anni hanno acquisito l’indipendenza, e la Nazione è tornata nel suo Paese». Israele va, in modo simile, verso la sua “obliterazione”, per fare posto ad uno Stato palestinese indipendente. «Gente come Netanyahu – ha assicurato – sarà scacciata».
Pochi giorni prima, in un messaggio diretto alla comunità internazionale, Netanyahu aveva avvertito che l’Iran rappresenta una minaccia «non solo per Israele, ma per il mondo intero». Quel giorno Bibi si riferiva a uno sviluppo immediato: la conferma, giunta dalla Agenzia per l’energia atomica (Aiea), che nella località segreta di Turkuzabad, alle porte di Teheran, erano state rilevate tracce di attività nucleari. L’esistenza di quel sito era stata rivelata nel 2018 dallo stesso Netanyahu, in un discorso alle Nazioni Unite.
«L’Iran – ha proseguito Netanyahu – continua a mentire circa i propri programmi nucleari. Adesso ha rinnovato l’arricchimento dell’uranio, il cui unico scopo è la produzione di un arsenale atomico». Per bloccare questi processi occorrerebbe una forte pressione internazionale. Ma Ue, Russia e Cina non la ritengono necessaria. Gli Stati Uniti, in questa fase, non prendono in esame altre iniziative, se non le pur pressanti sanzioni economiche. Di conseguenza Israele si sente di nuovo sostanzialmente solo: «In ogni caso non permetteremo all’Iran di dotarsi di armi atomiche».
Le apprensioni di Israele sono molto cresciute da agosto, quando cioè l’Iran ha lanciato un attacco in grande stile contro un importante giacimento di petrolio in Arabia Saudita. Ha fatto uso di droni, di “aerei suicidi” senza pilota, e di missili da crociera. Un’operazione, anche secondo Israele, “militarmente sofisticata”, che ha arrecato ingenti danni economici a Riad. Più preoccupante ancora per Israele la circostanza che nessuna reazione militare nei confronti dell’Iran sia poi giunta, né dall’Arabia Saudita né dagli Stati Uniti. In precedenza l’Iran aveva anche abbattuto un aereo spia Usa di notevoli dimensioni. Anche in quel caso non si era vista alcuna reazione del Pentagono.

Il carisma di Suleimani, stratega
Quelle erano le settimane, peraltro, in cui Trump annunciava il ritiro dalla Siria settentrionale e lasciava i curdi al proprio destino, nella imminenza di una offensiva militare turca. Lo stesso presidente degli Stati Uniti avrebbe poi approfondito il proprio pensiero su twitter, spiegando che il suo Paese è stanco degli “stupidi conflitti in Medioriente”.
Parole che sono state registrate con attenzione sia a Gerusalemme, sia a Teheran. Da tempo Israele documenta la progressiva penetrazione diretta o indiretta dell’Iran nei Paesi limitrofi: in Siria, in Libano e anche nella striscia di Gaza. Il regista ha un nome: il Generale Qassem Suleimani, comandante dei Guardiani della Rivoluzione, onnipresente in tutti gli scenari di combattimento, dal Libano alla Siria, dall’Iraq allo Yemen. Le foto ufficiali lo riprendono sovente al fianco di Khameney – l’ideologo della “obliterazione” di Israele – e talvolta anche con Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah libanesi. Altre foto ancora lo mostrano coperto di polvere, fra le truppe su uno dei fronti, come l’ultimo dei soldati. La sua potenza carismatica appare senza limiti.
Negli anni, grazie appunto all’Iran, gli Hezbollah hanno messo da parte 130 mila razzi e missili di vario genere con cui sono in grado di colpire praticamente ogni obiettivo in Israele, fino ad Eilat, sul mar Rosso. Per impedire l’apocalisse, in questi anni Israele ha realizzato un sistema di difesa aerea a più strati, unico al mondo, che dovrebbe saperli intercettare.

Il nuovo potere dell’Iran nell’area
Da parte sua – come nei progetti atomici – l’Iran ha dimostrato di non arrendersi mai di fronte alle difficoltà.
Agli Hezbollah ha offerto allora un sistema molto avanzato capace di rendere quei missili “molto più intelligenti”. Non esploderebbero più all’incirca nella zona dell’obiettivo, bensì a 20-30 metri di distanza al massimo. Lanciandone in quantità, tutti assieme, ci sarebbe la certezza statistica che una parte di loro seminerebbe distruzione nel cuore di Israele, in primo luogo nelle sue infrastrutture strategiche. A Israele risulta che l’Iran vorrebbe costruire in Libano stabilimenti per questo riadattamento dei missili e ha lanciato in merito un ultimatum eloquente. “Sarebbe un casus belli”, è stato spiegato. Per rafforzare le parole, un drone israeliano è esploso a Beirut, a breve distanza dal bunker di Nasrallah. Pare che là abbia distrutto in extremis macchinari che erano in procinto di essere utilizzati per avviare quel programma militare.
In Siria, l’Iran ha cercato invano di allestire basi militari per le sue milizie, ma Israele puntualmente le ha colpite con l’aviazione e con lanci di missili. Suleimani ha allora scelto per la loro dislocazione una zona dell’Iraq, vicina al confine con la Siria: la base di Buqomel. Anche lì si sono verificate ripetute esplosioni. Qualcuno le ha anche attribuite ad Israele.
A settembre, in occasione del Capodanno ebraico – una circostanza che avrebbe dovuto portare con sé serenità – agli israeliani è stata fatta presente la consistenza del pericolo iraniano in una intervista, senza precedenti nel suo genere, del Colonnello Dror Shalom, capo del dipartimento ricerca dell’intelligence militare. Se finora l’israeliano medio temeva che la minaccia diretta dell’Iran verso Israele potesse venire solo dalle alture del Golan – dove stanno prendendo posizione miliziani sciiti – con questa intervista è stato informato che l’Iran può colpire al cuore Israele anche dall’Iraq. Da quell’area – ha precisato il Colonnello Shalom – l’Iran può attaccare «mediante missili da crociera, o anche con droni capaci di agire a 1.000-1.200 chilometri di distanza». Ossia può organizzare per Israele una replica dell’attacco sferrato in Arabia Saudita. Sfruttando inoltre due elementi a suo favore: le difese aeree di Israele sono meno efficienti con i missili da crociera e inoltre, da un anno, non c’è a Gerusalemme un governo stabile.

Una minaccia che parte da lontano
Come se gli scenari del Libano, della Siria e dell’Iraq non fossero sufficientemente allarmanti, in queste settimane gli israeliani hanno appreso con stupore che un’altra minaccia per il Paese potrebbe giungere perfino dallo Yemen, dove l’Iran sostiene i ribelli Houti. A quanto pare l’Iran si accinge a dotare anch’essi di missili da crociera. Inoltre la guerriglia Houti potrebbe rappresentare una minaccia diretta per le navi israeliane in transito nel mar Rosso e nel golfo di Aden.
Ma mentre Suleimani tesseva la sua complessa tela di minacce militari attorno ai confini di Israele, la situazione gli è sfuggita di mano in due Paesi chiave.
Innanzi tutto il Libano, dove masse di dimostranti che avevano importanti rivendicazioni sociali hanno invaso le strade per settimane. Gli Hezbollah hanno cercato di mettere ordine con sistemi “iraniani” e tra i dimostranti c’è stata una vittima.
Il premier Saad Hariri ha poi dato le dimissioni, ma la crisi politica resta aperta. Allo stesso modo, anche in Iraq sono scesi in strada migliaia di dimostranti che si sono scontrati con le forze dell’ordine. Parte delle manifestazioni hanno assunto toni espliciti anti-iraniani. Le forze dell’ordine e le milizie sciite hanno aperto il fuoco, uccidendo oltre 100 persone. Anche a Baghdad il premier si è dimesso.
Suleimani ha allora convocato a Teheran le parti in conflitto, nel tentativo di mettere fine al caos. Secondo la stampa iraniana, “le proteste genuine dei libanesi e degli iracheni” sarebbero state strumentalizzate da servizi di intelligence stranieri, in primo luogo – ha ipotizzato – da Stati Uniti e da Israele.
Mentre Suleimani era impegnato a misurarsi con le proteste sociali in Libano e in Iraq, anche in Iran hanno avuto luogo sporadiche manifestazione di collera, in seguito al drastico aumento del prezzo della benzina.
Finché il Libano e l’Iraq sono sottosopra, finché in Siria Assad e l’Iran sono impegnati ad arginare l’avanzata di Erdogan, Israele beneficia di tempo extra per organizzarsi. Ma anche Gerusalemme attraversa da mesi una crisi politica: tanto più inesplicabile in quanto i suoi protagonisti (Benyamin Netanyahu, Benny Gantz, Avigdor Lieberman) sono perfettamente al corrente della gravità della minaccia iraniana.