La battaglia del Monte Moriah

di A. B.

Gerusalemme, 7 giugno 1967, ore 10 di mattina. I paracadutisti israeliani hanno appena conquistato il Monte del Tempio (Spianata delle Moschee) e la bandiera israeliana sventola sul Duomo della Roccia.

«Da duemila anni aspettavamo questo momento» esulta il gen. Mordechai ‘Mota’ Gur. «Il Monte del Tempio è nelle nostre mani!».

Trascinato dall’euforia, paragona i suoi soldati ai Maccabei, agli zeloti ebrei che lo purificarono. Sulla Spianata il rabbino capo Shlomo Goren avverte “un’atmosfera messianica”. Qualcuno già vagheggia la costruzione del nuovo Tempio, dopo quelli precedenti distrutti: il primo, nel 586 a.E.V. dai babilonesi; il secondo, nel 70 d.E.V. dai romani. Altri suppongono che presto arriveranno gli artificieri militari, per far saltare in aria il Duomo della Roccia.

Invece alle due del pomeriggio sulla Spianata sopraggiungono due menti cartesiane, gelide. Sono il ministro della difesa Moshe Dayan e il capo di stato maggiore, generale Yitzhak Rabin. Dayan guarda lontano, al futuro dei rapporti fra Israele e il mondo arabo. «Che ce ne facciamo, di questo Vaticano?», si chiede.

Dieci giorni dopo, senza consultare il governo (perché “troppo emotivo”), Dayan è seduto sui tappeti della moschea al-Aqsa assieme al Cadì di Gerusalemme, lo sceicco Abdul Hamid Sayyah, filo-giordano. Gli islamici, concordano, gestiranno la Spianata, mentre Israele sarà responsabile della sicurezza nel suo perimetro esterno. Gli ebrei avranno comunque libero accesso. Finito l’incontro, sul Duomo della Roccia la bandiera israeliana non c’è più. La spartizione è fatta. Il Monte del Tempio, cioè la Spianata delle Moschee, resta un luogo di culto musulmano, amministrato dal Waqf (l’ente per la protezione dei beni islamici, sotto la supervisione della corona hashemita). Per gli ebrei, il luogo di culto è da allora il Muro del Pianto, dove in quelle giornate le ruspe hanno appena allestito un’altra spianata sulle rovine di case arabe.

Il dibattito alla Knesset

Gerusalemme, Knesset, febbraio 2014. «Se oggi ‘Mota’ Gur fosse qui fra di noi, siamo sicuri che ripeterebbe le parole di allora: ‘Il Monte del Tempio è nelle nostre mani’?» La provocatoria domanda, lanciata dal deputato Moshe Feiglin (Likud), resta sospesa a mezz’aria nell’Aula della Knesset dove i deputati – per la prima volta negli ultimi decenni – sono stati convocati per chiarire a se stessi cosa resti della sovranità di Israele in quel sacro perimetro.

L’atmosfera è elettrica in questi giorni di fine febbraio. Il mondo arabo sta seguendo con apprensione il dibattito, nel timore che Israele stia per alterare lo status quo. Severi avvertimenti diplomatici giungono dal Cairo e da Amman (da dove poi il Parlamento invocherà la espulsione dell’ambasciatore israeliano). Aperte minacce vengono espresse da Hamas (Gaza) e da Hezbollah (Beirut), che incitano i palestinesi a «respingere con la forza gli attacchi israeliani».

E nella stessa Spianata, poco prima del dibattito alla Knesset, centinaia di giovani palestinesi attaccano con sassate e spranghe reparti della polizia israeliana: confermando, con la loro prassi, la tesi di Feiglin. Ossia che la sovranità israeliana – pur palese in tutta Gerusalemme – nella Spianata si è invece sfilacciata con l’andar del tempo, si è erosa, è diventata evanescente.

Reperti archeologici ebraici, lamenta Feiglin, sono distrutti e rimossi dalle autorità islamiche. L’ingresso di ebrei nella Spianata è limitato a poche ore al giorno, e nel Duomo della Roccia, negli ultimi anni, l’accesso viene consentito ai soli musulmani. Anche così – denuncia – agli ebrei religiosi viene consigliato di non ostentare troppo nella Spianata fattezze ebraiche (ad esempio la kippà) e viene rigorosamente vietato di recitare preghiere. «Fino a quando permetteremo loro di umiliarci? Proprio nel Monte del Tempio – esplode – che ci sia impedito di pregare?»

un deputato “Messianico”

Poco noto all’estero, Feiglin (51 anni) è un personaggio che andrebbe tenuto d’occhio. Negli anni Novanta guidava manifestazioni della destra extraparlamentare (Zu Arzenu), specializzate nella paralisi del traffico e nello stringere d’assedio gli emblemi del potere del governo di Yitzhak Rabin. In età più matura, avrebbe convinto migliaia di coloni ad iscriversi in blocco al Likud, nella corrente ‘Leadership ebraica’, per accedere piuttosto al potere dall’interno delle sue strutture. Escluso in passato con piccoli stratagemmi dalla lista parlamentare del Likud, l’anno scorso ha finalmente fatto ingresso alla Knesset. Qualcuno fiuta che punti alla premiership: così come Ariel Sharon nel 2000 utilizzò la Spianata delle Moschee come trampolino di lancio per la conquista del potere, così anche Feiglin si reca di volta in volta nella Spianata per mettersi in mostra. Ed è stato lui, a febbraio, ad imporre alla Knesset di misurarsi con una domanda scottante, che il parlamento israeliano aveva sempre preferito evadere: chi è oggi il padrone di casa, nella Spianata? Israele? Il Waqf? La Giordania, che si vede garante politica e religiosa di quel luogo santo, assieme con l’Anp? O forse Hamas e il Movimento islamico, che insistono nella diffusione di messaggi allarmanti, quotidiani, secondo cui «la moschea al-Aqsa è in pericolo immediato»?

Per ore, fra i banchi dei deputati, si sono scontrate due visioni ideologiche di Israele: da un lato, quella laica e pragmatica dei successori di Dayan e Rabin, secondo cui lo status definitivo della Spianata sarà concordato al tavolo dei negoziati con i palestinesi, nel rispetto del mondo arabo. Dall’altro quella nazional-religiosa, forse anche mistica, che si riconosce nelle parole del poeta Uri Zvi Grinberg: «Colui il quale controlla il Monte (del Tempio) controlla la Terra (d’Israele)».

In realtà, il dibattito nazionale ha anche un terzo lato: quello dei religiosi ortodossi secondo cui il Monte del Tempio (noto anche come Monte Moriah, dove secondo la tradizione ebbe luogo il sacrificio di Isacco) ha un livello di santità tale per cui, per il momento, l’ingresso di ebrei deve essere vietato. Feiglin ha invitato i deputati a considerare il significato della Menorah: il simbolo della Knesset, ispirato al candelabro a sette braccia scolpito sull’arco di Tito a testimoniare la schiavitù del popolo ebraico. «Proprio adesso che, per vie miracolose, siamo riusciti con l’aiuto del Signore a recuperare l’indipendenza, rinunciamo al dono del Cielo, al Monte del Tempio? Senza di esso – ha argomentato – non abbiamo alcuna ragione di essere qua, non abbiamo alcuna finalità… siamo come Crociati. La Menorah non è un reperto storico! La Menorah ci chiama a ripristinare la piena sovranità sul Monte del Tempio». Come lui, altri deputati nazionalisti avrebbero poi sostenuto che il popolo ebraico ha una missione universale da realizzare: cosa che non è possibile senza che il Monte del Tempio torni in mani ebraiche, e in primo luogo che nella Spianata si garantisca come minimo la libertà di svolgere preghiere ebraiche (in parallelo a quelle islamiche), così come avviene nella Tomba dei Patriarchi di Hebron.

Fra i banchi dei partiti laici si sono allora visti volti meravigliati.

I laici sono perplessi

Israele, per questi deputati, è ben altra cosa: uno Stato democratico, moderno, razionale, che per decenni ha registrato successi clamorosi in vari campi (dall’agricoltura all’industria high-tech, dall’esercito alla sua collezione di premi Nobel) senza mai avvertire alcuna nostalgia particolare per la Spianata delle Moschee.

Proprio chi è animato da spirito sionista – hanno replicato – deve rafforzare l’Israele plasmato dai leader laburisti: e ciò mediante accordi di pace che gli assicurino il necessario sostegno internazionale. Anche a costo di rinunciare a porzioni della sovranità sulla Spianata. «Quella Spianata – ha avvertito un oratore – è in realtà un barile pieno di esplosivo». Da uno scontro con l’intero mondo islamico, avvertono i servizi di sicurezza, Israele rischia di uscire in ginocchio. Se non peggio.

Il dibattito – è il caso di sottolinearlo – si è concluso senza decisioni di carattere operativo.