Il Medioriente, visto dalle montagne russe

di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Vivere nel Medioriente richiede nervi saldi e sangue freddo. Lo hanno constatato abbondantemente gli abitanti di Israele e i loro vicini nelle prime settimane di maggio, quando la Regione è come salita sulle montagne russe. Quando finalmente i vagoni hanno preso a rallentare, ciascuno degli attori principali – Israele, palestinesi, siriani, libanesi, iraniani – ha cercato di tornare a fare i conti con la realtà per comprendere se le proprie posizioni si fossero rafforzate o indebolite. Per ragioni diverse, quasi tutti hanno ora fondati motivi per guardare al futuro con una certa dose di preoccupazione.
Riassumiamo gli eventi. Volendo, si può stabilire che lo scompiglio è iniziato la sera del 30 aprile quando, con grande abilità scenica, Benyamin Netanyahu ha sbalordito il mondo rivelando che il Mossad aveva trafugato da Teheran buona parte dei progetti iraniani per la produzione di testate atomiche. I dettagli dell’operazione – ha detto una fonte del Mossad – «li sapranno forse i nipoti dei nipoti» degli israeliani di oggi. Nelle stesse ore a Ramallah il presidente Abu Mazen pronuncia al Consiglio nazionale palestinese un discorso che a molti sarebbe apparso di sapore antisemita. Sarebbe stato comunque poi confermato leader dell’Olp: acclamato da al-Fatah, e vilipeso da Hamas (le sue condizioni di salute, a 83 anni, destano oggi preoccupazione: fra il 14 e il 20 maggio è stato portato tre volte in ospedale a Ramallah).
Giorni dopo, gli Hezbollah, alleati dell’Iran in Libano, registrano un netto successo elettorale nel Paese dei Cedri. Teheran non fa però a tempo a festeggiare perché, poche ore dopo, Donald Trump annuncia che gli Stati Uniti lasciano unilateralmente gli accordi sul nucleare iraniano e rafforzano le sanzioni all’Iran. Il suo testo sembra scritto da Netanyahu in persona, che pochi minuti dopo, da Gerusalemme, esalta la visione del presidente degli Stati Uniti.
Ma nemmeno Israele ha il tempo per compiacersi di questo eclatante successo diplomatico perché dalla Siria spirano venti di guerra e, all’alba del 10 maggio, una ventina di razzi iraniani sono indirizzati contro le alture del Golan. È la prima volta che gli ayatollah attaccano direttamente Israele, la cui aviazione replica immediatamente con bombardamenti su obiettivi militari iraniani in Siria. «L’attacco più esteso in Siria negli ultimi decenni», precisa una fonte militare. Nelle retrovie israeliane cresce la preoccupazione di una guerra regionale. Intanto Netanyahu è già a Mosca per discutere quegli eventi con il presidente Vladimir Putin, dopo essere stato suo ospite alla sfilata militare che celebra il successo dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale. Un onore che nessun leader israeliano aveva mai ricevuto prima: cosa tanto più strabiliante alla luce della sua simbiosi politica con Trump.

REUTERS/Ibraheem Abu Mustafa

L’attenzione regionale viene però sequestrata da Ismail Haniyeh e Yihia Sinwar: i leader di Hamas a Gaza che da settimane hanno mobilitato la popolazione per una Marcia del ritorno concepita per abbattere con la forza il blocco israeliano alla Striscia. L’apice degli incidenti avviene il 14 maggio quando 40 mila dimostranti si lanciano a testa bassa verso il confine di Israele, dove tre brigate dell’esercito sono in attesa. Al termine della giornata di battaglia si contano sul terreno 62 morti e oltre duemila feriti.
Nelle stesse ore, a Gerusalemme, Netanyahu giubila per il tanto atteso trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti alla presenza di Ivanka Trump e Jared Kushner. Per la sofisticata eleganza degli ospiti, l’evento ricorda un po’ i matrimoni dell’alta borghesia americana intravisti nei film di Hollywood. La cerimonia appare tuttavia incompleta (per la clamorosa assenza fra gli invitati di alcun rappresentante democratico americano) e a tratti diventa perfino bizzarra quando prendono la parola un apocalittico predicatore evangelico e un rabbino messianico. «Questa è una grande giornata per la pace», esclama felice Netanyahu (in una Gerusalemme blindata, presidiata da 2000 agenti), mentre a Gaza il bilancio degli uccisi cresce a ritmo esponenziale.

La trappola sanguinaria di Hamas funziona alla perfezione

Negli schermi delle reti televisive i calici elevati a Gerusalemme sono accostati ai corpi sanguinanti dei palestinesi di Gaza, e diventano così un boomerang terribile per l’immagine di Israele nel mondo. Implicitamente, appare come un Paese che – anche quando ha ragione da vendere, come nel caso delle ciniche provocazioni di Hamas – risulta insensibile alle sofferenze dei palestinesi. Una sensazione rafforzata da altre immagini, provenienti dalla laica e progressista Piazza Rabin di Tel Aviv, dove quella sera 20 mila persone festeggiano spensierati la vittoria di una cantante israeliana ad una gara canora in Europa.
Mentre Netanyahu – che in Israele tocca ormai record storici di popolarità – è impegnato a compiacersi del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele (confermato poi dal trasferimento dell’ambasciata del Guatemala), una doccia fredda giunge dalla Turchia con la espulsione dell’ambasciatore di Israele e con un nuovo turpiloquio del presidente Tayyp Recep Erdogan contro lo Stato ebraico. Adesso a Gaza è la volta di Hamas ad esultare per essere riuscito a causare ad Israele danni diplomatici non indifferenti con la marcia sul confine che dunque è destinata a proseguire fino a giugno, in pieno Ramadan. Lo stesso giorno, anche l’Iran deve ingoiare un boccone amaro, come non fossero bastati i furti degli archivi, l’uscita degli Usa dagli accordi sul nucleare e i gravi danni inflitti dall’aviazione israeliana alle sue strutture in Siria. Adesso anche i suoi investimenti in Iraq sono rimessi in discussione dopo il successo elettorale di Muqtada Sadr: un leader integralista sciita a cui l’Iran risulta egualmente indigesto quanto gli Stati Uniti.

All’uscita dalle montagne russe, Israele può quindi dirsi abbondantemente soddisfatto perché questo mese il suo deterrente regionale è molto cresciuto, sia per gli strepitosi successi di intelligence, sia per l’evidente rafforzamento dei legami con Washington (confermati da Jared Kushner), dopo il gelo degli anni di Obama. Grazie a un esercito super-efficiente è riuscito a guadagnare tempo sia sul fronte siriano (dove però prevedibilmente gli iraniani torneranno a riparare le loro basi militari), sia sul fronte palestinese, dove sono finora falliti i tentativi di Hamas di forzare il confine. Il rischio è che i successi diano alla testa, come avvenne in Israele nel 1973 nei mesi antecedenti alla guerra del Kippur. Già adesso si sentono ministri nazional-populisti che minacciano di eliminare Bashar Assad, o Ismail Haniyeh o anche di «riportare il Libano all’età della pietra». Fortuna vuole che il capo di stato maggiore, generale Gady Eisenkot, mantiene invece i piedi per terra.

L’Iran è uscito ammaccato, ma non vinto, dal confronto in Siria.

Sul nucleare si può felicitare che il fronte occidentale si sia spezzato: gli Usa vanno con Israele, mentre Ue, Germania, Francia e Gran Bretagna restano a favore degli accordi assieme a Cina e Russia. Difficile dunque prevedere che si realizzi la richiesta perentoria di Netanyahu di annullare gli accordi e di rivederli profondamente. Hezbollah in Libano è stato premiato dagli elettori, ma adesso ha una ragione in più per mostrare responsabilità nazionale e non azzardare avventure militari contro Israele. L’Iran, secondo analisti israeliani, conserva gli Hezbollah come carta di riserva da giocare nell’eventualità che Israele tentasse di colpire le installazioni atomiche nel suo territorio.
Fra i palestinesi infine è lotta sempre più sorda fra al-Fatah e Hamas. Il tentativo di Abu Mazen di recuperare il controllo completo di Gaza (incluso il comando su decine di migliaia di miliziani fedeli a Hamas) è naufragato definitivamente a febbraio, quando un ordigno è esploso a Gaza al passaggio del convoglio del premier Hamdallah (che è rimasto incolume). Le sanzioni economiche imposte dall’Anp ai due milioni di abitanti di Gaza sono sempre più crudeli. Hamas si trova con l’acqua alla gola, sia per la disperante crisi economica sia perché Israele ha escogitato difese efficaci contro i suoi principali strumenti militari offensivi: i suoi missili sono intercettati da batterie Iron Dome; i tunnel militari scavati da Gaza sono scoperti sempre più spesso (nove, da ottobre a oggi); e lo sviluppo di droni di attacco ha subito ritardi dopo le misteriose uccisioni di due ingegneri islamici, in Tunisia e in Malesia.

Hamas ha scelto di affrontare la crisi in modo crudele e geniale: più morti da sbattere in faccia al mondo e a Israele

Per uscire dalla crisi, la tattica di Hamas è stata tanto crudele quanto geniale: esasperarla al massimo, puntando ad un massacro che scuotesse le coscienze nel mondo. La sua abilità è stata il dissimulare l’attacco militare al confine di Israele all’interno di manifestazioni civili di massa. Sul piano interno, Hamas ha inoltre cercato di convincere i palestinesi che ormai Abu Mazen appartiene al passato e che solo gli islamici lottano per la causa. Eppure, passata l’orgia di violenza, i problemi di Gaza sono rimasti gli stessi: due milioni di disperati, senza lavoro, senza acqua potabile, senza corrente elettrica, senza un futuro, condannati – come ha detto Sinwar – «a morire lentamente, giorno per giorno». All’indomani dell’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e dopo il duro confronto al confine di Gaza, Israele è adesso chiamato a chiedersi quale futuro politico prospettare ai palestinesi e come alleviare la crisi umanitaria nella Striscia. Per allentare le tensioni, la leadership politica israeliana dovrà dare il meglio di sé con coraggio, immaginazione e generosità.